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Un romano a Roma PDF Stampa E-mail
Scritto da Ciro Andreotti   
martedì 16 giugno 2020

Un romano a Roma

“Cosa volete che vi dica. È il più superato di noi perché non ha fatto altro che recitare all’infinito la stessa parte, portando in scena sempre sé stesso”

Parole di Nino Manfredi e musica destinata a un suo collega che da sempre è giudicato uno dei migliori attori della dorata generazione degli anni ‘50/’60. Un attore che Nino reputava essere ormai un fossile non meritevole del credito che gli era sempre stato concesso. Ma chi fosse questo collega a suo modo criticato da Manfredi va ricercato nella sua storia personale e di un paese in bilico fra le due guerre.

Inizio anni trenta, un bambino cammina con la madre e i suoi fratelli nella Roma prebellica. I cinque si trovano nei pressi delle terme Antoniniane sulla sommità della collina che le sovrasta. Il bambino osserva una villa di proporzioni faraoniche, si ferma a guardarla ogni volta che passa lungo quella strada. L’osserva e pensa che quella casa grande e spaziosa la vorrebbe tutta per sé.

Alberto, questo il nome di quel bambino, è dotato di quella vivacità comune a tutti i ragazzini assetati di voglia di stupire il mondo adulto. Per incanalare questa sua veemenza la madre lo spinge a frequentare il coro della chiesa ove canta con quella cadenza che da sempre rende celebre la gente della capitale. Alberto ha un pensiero fisso, lavorare nel mondo dello spettacolo, anzi dell’avanspettacolo. Ai genitori piacerebbe vederlo invece con un pezzo di carta in tasca e magari sposato con figli. In entrambi i casi il destino avrà per lui altri progetti.

Primi anni cinquanta. Alberto ha da poco sepolto la madre dopo averla vegliata anche da morta assieme ai suoi tre fratelli.
Il padre, basso tuba dell’orchestra comunale, era già un pallido ricordo. Maria, sua madre, ha dovuto crescere i quattro figli sola per tutto il percorso bellico e Alberto, il più giovane di loro, non ha mai accantonato quel desiderio ancestrale di darsi definitivamente alla carriera d’attore che di fare altro non se ne parla neppure. A sedici anni per esempio era stato spedito a Milano da un amico di un parente di Valmontone, da dove proviene la sua famiglia, per cercare di avviarlo alla professione di elettricista. Il padre, prontamente informato dell’indolenza del figlio, ha accettato suo malgrado di farlo rientrare a Roma.

Siamo sempre nei primi anni ’50 e alla soglia dei trent’anni Alberto riesce ancora e solo a strappare qualche piccola parte da comparsa accalcandosi di fronte a Cinecittà assieme a tutte le maestranze di quel mondo baciato dal neorealismo, nel frattempo ha finalmente coronato il suo sogno e lavora nell’avanspettacolo, inoltre ha anche vinto un concorso radiofonico per doppiare, assieme a uno studente d’ingegneria, una coppia di comici americani.
A lui, dotato di una voce profonda e calda, è toccato il comico sovrappeso, sfrutterà questa opportunità per portare in scena il medesimo personaggio, mostrandosi come ‘la voce di Oliver Hardy’ nel corso di quell’avanspettacolo nel quale ha iniziato a bruciare le tappe. Prima come semplice comparsa al fianco di ballerine di fila e ora direttamente sul palco da solo al punto che al primo applauso l’emozione è stata così forte e il groppo alla gola così incontrollabile che ha fatto fatica a ricacciarlo indietro, mentre il pensiero ritornava al padre scomparso che per lui prediceva un futuro di stenti e difficoltà, perché si sa “va bene il teatro. L’avanspettacolo. La radio, ma te che voi fà pe’ campà?”. Alberto invece non si è certo perso d’animo e si è specializzato nel doppiaggio, non solo del duo comico a stelle e strisce e anzi ormai è fra i doppiatori più richiesti, e dire che lui ha fatto tutto da completo autodidatta imparando tutto sul campo. Inoltre nella sua vita professionale c’è molta radio, il suo vero primo grande amore, con una trasmissione dove porta personaggi di sua invenzione ricavati dall’osservazione delle strade che percorre quotidianamente che sotto i suoi occhi diventano il suo territorio di caccia dove esplora tic, espressioni, cinismo gratuito, battute che poi porterà esasperate nell’etere dando il via a quello che è definibile come ‘il metodo Sordi’ poi copiato anche da altri comici negli anni a venire, uno su tutti: Carlo Verdone che di Sordi diventerà a suo modo erede designato.

alberto_sordi_-_scena_degli_spaghetti_-_un_americano_a_roma.jpg

Dai primi anni sessanta. Sordi ormai è un’istituzione, sforna film a ripetizione anche dieci pellicole in un anno e tutte sono un successo incredibile al botteghino. Appena dieci anni prima non aveva però ancora certezze, ma una vita di radio e doppiaggio che ormai gli andavano strette. Il mare della radio a onore del vero avrebbe voluto continuare a solcarlo, ma ormai il cinema lo aveva del tutto catturato e con una voce così riconoscibile chiunque avrebbe notato un attore a stelle e strisce che parlava con l’inconfondibile voce di Alberto o anche un celebre attore Italiano come Mastroianni, doppiato in Domenica d’Agosto pellicola del 1950 diretta da Luciano Emmer.

Fu dai primi anni cinquanta che Alberto riesce finalmente a svoltare iniziando a inanellare una serie di occasioni colte tutte al volo. Nel 1951 in Mamma mia, che impressione! Diretto da Roberto Savarese, Sordi mette mano assieme a Cesare Zavattini, anche alla sceneggiatura portando in scena un personaggio figlio de ‘il compagnuccio della Parrocchietta’ ovvero uno dei numerosi protagonisti radiofonici da lui creati. L’anno seguente è diretto da un amico riminese appassionato di cinema quanto lui e altrettanto desideroso di affermarsi. Diventerà protagonista di due pellicole che saranno pietra angolare della carriera non di Alberto ma di Federico, questo il nome dell’amico: Lo sceicco bianco (Fellini, 1952) e I Vitelloni (Fellini, 1953). Fu però durante il film a episodi Un giorno in pretura (Steno, 1954), toccato da un incredibile successo sia al botteghino sia dalla critica, che Sordi ebbe l’illuminazione lungo la via che l’avrebbe potuto condurre fino a Damasco. Alberto impersona un ragazzo romano appassionato di tutto quello che proviene dagli Stati Uniti. Non pago del successo della pellicola Sordi vi aggiunge un vero colpo di genio proponendo a Steno un nuovo film in cui il solo protagonista sia Nando Morriconi, questo il nome del giovane americanofilo che come dice Carlo Verdone: “In quel film pareva un pazzo. Usciva da un angolo buio e minacciava con un revolver giocattolo un gatto accusandolo d’essere una spia, simulando una serie di colpi con la bocca come si fa da ragazzini e parlando, anzi urlando, nella notte di Roma in un inglese maccheronico”. Un americano a Roma sarà un successo anche migliore di un giorno in Pretura e da Morriconi ai successi degli anni seguenti il gioco è quasi fatto.

Assistito da una capacità camaleontica di adattarsi a qualunque sceneggiatura Sordi diventa un incredibile fagocitatore di personaggi e storie di casa nostra, correndo e percorrendo la penisola da un angolo all’altro, come già detto portando in scena numerose pellicole all’anno, con una capacità di non stancare mai il pubblico nonostante una sovraesposizione che oggi verrebbe vista come negativa e che porterebbe a scelte differenti. Sordi ha saputo, come il suo amico e confidente Totò, diventare attore opponendo al neorealismo dei primi anni del dopoguerra una comicità innovativa, mai banale e anzi agrodolce, malinconica, cinica. Simbolo di un’Italia che s’identificava con quegli anni ma inquadrati in un contesto non ridicolo ma ironico per via delle sue capacità d’improvvisazione che maggiormente s’esaltavano ed erano visibili nelle sue incursioni televisive in cui aveva la possibilità di duettare con artisti del calibro di Mina, delle gemelle Kessler, di Corrado e Alighiero Noschese, solo per citarne alcuni.

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Di pari passo con i successi professionali cresceva anche la notorietà di Sordi a livello di gossip e in termini di patrimonio personale e se della vita privata Sordi ha saputo celare ogni anfratto del secondo si sa che inizialmente i suoi incassi al botteghino e gli ingaggi che arrivavano copiosi servirono per sostituire la precedente abitazione di famiglia, nel quartiere di Trastevere, con un bell’appartamento nel quale risiedeva assieme alle sorelle Aurelia e Savina in Via delle Zoccolette, una casa confinante con quella di un noto docente e studioso di cinema: Mario Verdone, padre del futuro regista Carlo, sempre lui. Successivamente quella villa posta sul colle che sovrasta da sempre le Terme di Caracalla e che Alberto osservava stupito ogni volta che al seguito della madre ritornava a Trastevere divenne finalmente sua.
Una villa soffiata per un nonnulla all’amico Vittorio De Sica e che corredata di una sala cinema che all’occorrenza poteva diventare palco di un piccolo teatro ha ospitato l’attore e le due sorelle dal 1958 sino alla sua scomparsa. Già perché anche se pare ieri, se non sembra possibile, ma sono già oltre tre lustri che il giovane Nando Morriconi, Alberto Nardi detto cretinetti, il soldato semplice Oreste Iacovacci, l’editore Fausto Di Salvio e centinaia di altri personaggi sono ormai depositati nel ricordo comune non solo di noialtri ma internazionale al punto che un attore del calibro di Robert De Niro ha ammesso più volte di aver studiato il comportamento da ubriaco di Sordi: “perché è difficilissimo fare bene l’ubriaco e Sordi era perfetto !!”. Sarebbe inutile e stucchevole arrivare a commentare ogni successo di un attore che forse, come diceva Manfredi, ha fatto all’infinito il medesimo personaggio sempre uguale a sé stesso, ma forse è più semplice inventare qualcosa che copiare all’infinito la parte più difficile, ovvero sé stessi, e riuscire al tempo stesso a toccare vette narrative altrimenti inarrivabili.

Ciro Andreotti

 
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