Dachimawa Lee
Titolo originale: Dachimawa Lee
Corea: 2008 Regia di: Ryoo Seung-wan Genere: Commedia Durata: 99'
Interpreti: Im Won-hee, Kong Hyo-jin, Park Si-yeon, Kim Su-hyeon, Hwang Bo-ra, Ahn Gil-gang, Ryu Seung-beom
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Voto: 6
Trailer
Recensione di: Nicola Picchi
Siamo in Corea nel 1940, e il leggendario Dachimawa Lee è un agente segreto che combatte per liberare il suo paese dall’oppressione nipponica.
Quando viene trafugato un prezioso Buddha d’oro massiccio che contiene al suo interno la lista degli agenti segreti coreani, Dachimawa Lee dovrà recuperarlo a tutti i costi prima che se ne impadroniscano i giapponesi.
Nel 2008 il cinema coreano sembra aver riscoperto il periodo buio del colonialismo e abbondano i film che utilizzano come sfondo quel particolare periodo storico, rivisitato in maniera tutt’altro che realistica.
A parte l’ultimo, sfavillante Kim Jee-won, ci si ritrova per le mani lo scanzonato “Once Upon a Time” di Jeong Yong-ki, l’irrisolto e claudicante “Modern Boy” di Jung Ji-woo e “Dachimawa Lee”, il quale sviluppa il primo cortometraggio di Ryoo Seung-wan, risalente al 1998 e liberamente visionabile su “YouTube”.
Di quell’abbozzo della durata di 35 minuti, Ryoo conserva anche il protagonista, il tutt’altro che affascinante Im Won-hee, utilizzandolo a contrasto. Infatti Im, sovrappeso e dotato di una fisicità goffa e impacciata, non ha certo le phisique du rôle dell’agente segreto, né tantomeno quella del tombeur de femmes. Il regista pratica qui un genere poco frequentato in Corea, quello della parodia, prendendo di mira i film d’azione degli anni ’60 e ’70, alla stregua degli spoof bondiani di nazionalità incerta che si susseguivano anche dalle nostre parti, o dell’esilarante “Casino Royale” del 1967, con David Niven e Peter Sellers.
Il titolo, che suona come una parola giapponese, è infatti il termine che usavano all’epoca i registi coreani per definire un film d’azione; la presa in giro è affettuosa, dall’interno e non certo accesa di furia iconoclasta, un po’ come fecero a suo tempo Ken Russell e Michael Caine con il personaggio di Harry Palmer ne “Il cervello da un miliardo di dollari”.
Parcellizzato in microscene, “Dachimawa Lee” segue la filosofia dell’accumulo, saturando all’inverosimile ogni segmento per poi farlo esplodere e passare al successivo. L’iperbolica compressione e le citazioni sfoderate da Ryoo possono far sorridere, a patto di condividere l’humour del regista e i suoi film di riferimento.
Ovvi gli ammiccamenti alla filmografia coreana dell’epoca, ma non ci si dimentica di tirare in ballo “The One Armed Sworsdman” dei gloriosi Shaw Brothers e gli sgangherati film di arti marziali di quel periodo, o di concedersi parentesi da western all’italiana.
Le avventure di Dachimawa Lee lo porteranno a viaggiare da Shanghai alla Manciuria, dalla Svizzera alla Pennsylvania, tutti luoghi assurdamente fittizi dato che, visibilmente, siamo ancora in Corea.
La comicità è delegata non solo alle innumeri gag da slapstick comedy, ma, curiosamente, anche alla colonna sonora e al doppiaggio, realizzato in postproduzione: la “Sarabanda” di Haendel (da “Barry Lyndon”) e le musiche di Bernard Herrmann, usate del tutto incongruamente, si mescolano a stacchi musicali e a sigle di telefilm, mentre gli attori recitano in quattro lingue diverse (coreano, inglese, cinese e giapponese), ma ci si accorge ben presto che in realtà si limitano a strascicare le parole in modo diverso, imitando l’inflessione cantonese o giapponese.
La cinefilia bulimica di Ryoo conduce verso un torrente incontrollato di gag, le quali non sempre colgono il bersaglio ma assicurano una buona dose di divertimento.
Del resto Ryoo, anche se carente per altri versi, è ottimo regista di scene d’azione, come ha ampiamente dimostrato in “The City of Violence” e “Crying Fist”, e anche stavolta si avvale degli stuntmen della Seoul Action School del coreografo Jung Doo-hong, la stessa al centro dell’interessante documentario “Action Boys” di Jeong Byeong-gil. Confezione smagliante, costumi strepitosi e due fascinose “Bond girl” come Kong Hyo-jin e Park Si-yeon, cosa chiedere di più?
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