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Guns and Roses PDF Stampa E-mail
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Scritto da Nicola Picchi   
martedì 20 novembre 2012

Titolo: Guns and Roses
Titolo originale: Huang jin da jie an
Cina: 2012. Regia di: Ning Hao Genere: Commedia Durata: 110'
Interpreti: Lei Jiayin, Tao Hong, Yamazaki Keiichi, Cheng Yuanyuan, Yue Xiaojun, Guo Tao, Fan Wei, Liu Hua, Huang Bo
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: Inedito
Voto: 6,5
Trailer
Recensione di: Nicola Picchi
L'aggettivo ideale: Impazzito
Scarica il Pressbook del film
Guns and Roses su Facebook

guns_and_roses_leggero.pngXiao Dongbei è un imbroglione di mezza tacca che, nella Manciuria occupata degli anni ’30, sbarca il lunario rapinando preti nei confessionali o derubando piccoli mendicanti.
Quando si trova a condividere la cella con un membro della resistenza torturato dai giapponesi, rimane coinvolto suo malgrado nel piano dei rivoluzionari: sottrarre 10 tonnellate d’oro che stanno per essere consegnate alla banca Yamato, in corrispondenza della visita dell’ambasciatore italiano.

Il modello dichiarato di Ning Hao, che già aveva firmato due successi come “Crazy Stone” (2006) e “Crazy Racer“ (2007), mentre il penultimo “No Man’s Land” è caduto sotto la scure della censura, è evidentemente “Let the Bullets Fly”, ma anche se Ning non sarà mai Jiang Wen è pur sempre in grado di imbastire una discreta commedia con venature drammatiche, che ha ottenuto buoni incassi al botteghino.
Purtroppo non tutto si tiene, complice uno script che, opera di ben sei sceneggiatori, va in troppe direzioni contemporaneamente rischiando di far impazzire l’amalgama.

La CGI la fa da padrona a partire dai titoli di testa, interni virtuali si mutano ex abrupto in interni reali, attribuendo un aspetto sfacciatamente artefatto e favolistico all’insieme, senza contare che nella piazza principale della città di Shinkyo, capitale dello stato fantoccio del Manchukuo, campeggia l’improbabile statua equestre di un samurai, a simboleggiare l’oppressione nipponica. E se la parabola compiuta dal protagonista, da spudorato cialtrone ad ardente rivoluzionario, è alquanto convenzionale e ortodossa, “Guns and Roses” acquista punti nella riuscita caratterizzazione dei personaggi di contorno.
Lo svanito genitore di Dongbei, orgoglioso reduce della rivolta dei Boxer, la seducente attrice Fang Die, stella del cinema “collaborazionista”, la romantica Xixi, ingenua figlia del direttore della banca Yamato, gli sgangherati banditi manciuriani, che accendono incensi a Guan Yu prima di entrare in battaglia, il ridicolo ambasciatore italiano (e questo la dice lunga su come ci vedano i cinesi), che sembra uscito da un’opera buffa e porta in dono un ritratto di Hitler, tutti vividamente ritratti, danno corpo e sostanza a una scatenata commedia degli equivoci mantenuta in equilibrio tra ilarità e tragedia.
E poi c’è l’irresistibile Dongbei, interpretato dall’esordiente (al cinema) Lei Jiayin, spassosissimo quando si traveste da Cristo cinese o quando sottrae posate d’argento durante un ricevimento, doverosamente afflitto e persino commovente nella parte finale, quando la finzione ludica si sgretola e le pallottole cominciano a far male davvero, anche se forse non tutto è perduto e, se da un paio di forchette intrecciate può sbocciare una rosa rossa, la fantasia può ancora tornare al potere.

La sua nemesi, l’anima nera di “Guns and Roses”, è il colonnello Toriyama (Yamazaki Keiichi), sospeso tra crudeltà e istrionismo, che richiama nelle intenzioni il soave Christoph Waltz di “Inglorious Basterds”, come del resto lo sporadico utilizzo di falsi filmati di repertorio in bianco e nero. L’idea di una troupe cinematografica che si batte per liberare la Manciuria dai giapponesi, rammenta invece i teatranti di “Vogliamo vivere” di Lubitsch e i suoi incroci tra set e realtà.
La resistenza diventa spettacolo e può essere combattuta con le armi della finzione scenica, in omaggio al potere del cinema. Nelle sequenze della rapina al furgone blindato, effettuata con effetti sonori ed esplosioni di scena, la simulazione prenderà momentaneamente il sopravvento sulla realtà e la cosa funzionerà almeno fin quando quest’ultima non tornerà a reclamare i suoi diritti. Ning Hao mantiene un ritmo vorticoso e irruente, assecondato da un manipolo di attori in stato di grazia, tra cui gli abituali Guo Tao, Fan Wei e Liu Hua, inserendo persino nella trama qualche riferimento storico: la bella Xixi, infatti, è la promessa sposa del fratello di Puyi, ultimo imperatore della dinastia Qing, messo a capo del Manchukuo dagli infidi giapponesi.

L’opulenza delle scenografie e dei costumi, le buone coreografie delle scene d’azione, opera del coreano Yang Kil-young (Old Boy), o la fotografia di Zhao Fei (Let the Bullets Fly, appunto), non riescono però a far dimenticare che, al suo primo film dotato di un budget più sostanzioso, Ning stempera la sua vena anarcoide per raggiungere un pubblico più vasto e, si presume, soddisfare gli investitori e la censura, la quale si sarà rallegrata per la chiusa patriottica. I gangster taiwanesi di “Crazy Racer”, insomma, erano un’altra cosa.

 
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