A good lawyer’s wife
Titolo originale: Baramnan gajok
Corea: 2003. Regia di: Im Sang-soo Genere: Drammatico Durata: 106'
Interpreti: Moon So-ri, Hwang Jung-min, Yun Yeo-jung, Kim In-mun
Sito web:
Voto: 7
Recensione di: Nicola Picchi
“Se il nostro corpo vuole qualcosa, bisogna darglielo.”
(A good lawyer’s wife)
Questo film di Im Sang-soo era miracolosamente uscito anche da noi con il titolo “La moglie dell’avvocato”, spacciato in maniera truffaldina per filmaccio pseudo erotico (“Un erotic thriller intenso e scandaloso”, recita il DVD ed anche “Scene di sesso magnifiche”, firmato L’Espresso). Evidentemente si pensa che, nella percezione del popolo italico, gli orientali, non importa di quale nazionalità, “lo fanno strano”, e quindi una curiosità un po’ pruriginosa sia l’unico modo per accostare la gente a questo tipo di cinema. Inutile dire che il film è tutt’altra cosa. Molto criticato in patria per come indaga le dinamiche familiari all’interno della società coreana, ovvero con implacabile realismo ed uno straniante e gelido distacco, “A good lawyer’s wife” è il ritratto della disgregazione di un gruppo familiare e, forse, della sua impossibilità a sopravvivere nel mondo contemporaneo, tanto che Im, replicando alle critiche, ha dichiarato: “È la storia della mia vita, della mia famiglia, dei miei amici.” Ho-jeong, ex ballerina, è la moglie insoddisfatta di Young-jak, avvocato di successo, il quale la trascura per un’amante più giovane, Yeon, di cui non è innamorato ma da cui è attratto sessualmente. A lei non resta che occuparsi del suocero, ormai in fin di vita, ed iniziare una relazione con Ji-woon, il vicino di casa diciassettenne. Una sera Young-jak e Yeon hanno un incidente di macchina, un evento che porterà a conseguenze drammatiche e del tutto inaspettate, che faranno precipitare le cose. Im Sang-soo evita le secche del melodramma grazie ad una scrittura rigorosa, scansando le morbosità potenzialmente insite nel rapporto tra Ho-jeong e Ji-woon, morbosità che, a dire il vero, sono da sempre assenti nel cinema coreano (vedi anche l’ottimo “Green chair”, per restare in argomento) che offre una rappresentazione adulta e matura della sessualità, ben lontana dai titillamenti adolescenziali da seminarista con cui il nostro cinema ha quasi sempre affrontato l’argomento. I personaggi sono segnati dall’insoddisfazione, particelle impazzite di un sistema in via di disintegrazione: Young-jak resta con l’amante spinto più che altro dal senso di colpa da quando lei è rimasta incinta, e Yeon lo tradisce a sua volta con un altro uomo; sua madre aspetta con impazienza la morte del marito, malato di cancro, per potersi risposare con un vecchio compagno di scuola; suo figlio Soo-in rimane traumatizzato e spaesato quando scopre di essere stato adottato; Ho-jeong cerca un’impossibile via di fuga nella sua storia con Ji-woon, ma la loro relazione è destinata a troncarsi bruscamente quando il padre del ragazzo li sorprenderà insieme. Im Sang-soo adotta bruschi cambi di tono e sterzate improvvise, che alle volte possono risultare spiazzanti e che fanno deflagrare con violenza i già fragilissimi rapporti tra i personaggi, basati su una rete quotidiana di falsità, sotterfugi e menzogne. Il regista filma in digitale con largo uso di camera a mano e con lunghi piani-sequenza a definire abilmente gli spazi dove lascia vivere e respirare i suoi protagonisti, contrapponendo nettamente armonia (la scuola di danza) e caos (tutto il resto), mentre la fotografia di Kim Woo-hyung adotta colori saturi ed iperrealisti, dando al film quel tono un po’ laccato tipico di tanto cinema coreano. Straordinaria la prova d’attrice di Moon So-ri (Oasis, Family ties), che lentamente si riappropria del suo corpo e della sua fisicità, fino a trovare la forza che le permetterà di maturare l’esigenza di un distacco definitivo.
|