Invisible Waves
Titolo originale: Invisible Waves
Thailandia: 2006. Regia di: Pen-Ek Ratanaruang Genere: Drammatico Durata: 115'
Interpreti: Tadanobu Asano, Hye-jeong Kang, Eric Tsang, Maria Cordero, Toon Hiranyasap, Ken Mitsuishi
Sito web:
Inedito in Italia
Voto: 7,5
Recensione di: Nicola Picchi
Kyoji, che lavora come aiuto cuoco in un ristorante, è l’amante di Seiko, la moglie di Wiwat. Ma Wiwat è anche il capo di Kyoji, ed un giorno lo assume per ucciderla. L’uomo esegue freddamente il compito che gli è stato assegnato e lascia Hong Kong per la Thailandia, dove viene mandato nell’attesa che si calmino le acque. In realtà Wiwat, a conoscenza della relazione di Kyoji con la moglie, gli ha teso a Phuket una trappola mortale.
Quella che in mano ad un altro regista avrebbe potuto essere una classica trama da noir senza troppe sorprese, nelle mani di Pen-Ek Ratanaruang, già autore del bellissimo “Last life in the universe”, diventa tutt’altra cosa.
Le convenzioni del genere appaiono congelate in una surreale immobilità ed i personaggi sono ridotti a silhouette evanescenti osservate da una distanza siderale: le inquadrature sezionano i corpi con tagli quasi fotografici o li rimpiccioliscono e li schiacciano contro geometrie assolute e prevaricanti, quando non li escludono totalmente. Questo allontanamento dello sguardo fa risaltare l’assurdità un po’ ridicola e vana dei gesti e delle situazioni, facendo implodere la narrazione in maniera molto personale.
La cifra stilistica di Ratanaruang è chiara fin dall’inizio: la scena della cena seduttiva tra Kyoji e Seiko, che si concluderà con un omicidio, è accuratamente svuotata da qualsiasi emotività, giocata com’è sul fuori campo e sull’ellissi narrativa, e tende ad inibire qualsiasi tipo di coinvolgimento allo spettatore. Nello stesso modo sono trattate le rare scene di azione (Kyoji che viene derubato nella stanza d’albergo, la sparatoria con il killer giapponese), che sono sistematicamente eluse e vanificate, mentre il film è ricco di divagazioni narrative apparentemente ingiustificate (l’incontro con il vecchio compagno di scuola, il dialogo con il barista sulla nave) che sfiorano il puro nonsense. Pur avendo avvelenato Seiko, Kyoji è totalmente immune da sensi di colpa o da ripensamenti di ordine morale, e le implicazioni etiche della vicenda sono lasciate in secondo piano dato che mal si accorderebbero con il lato marionettistico del personaggio.
Si potrebbe dire che Samuel Beckett incontra il noir, anche grazie alla straordinaria interpretazione di Tadanobu Asano, che sembra un dinoccolato ed impassibile Buster Keaton, nè l’accostamento sembri peregrino dato che l’unico film di Beckett, per l’appunto tautologicamente intitolato “Film”, vide proprio Keaton protagonista. Le disavventure di Kyoji sulla nave da crociera che lo conduce in Thailandia (le gag con la doccia, con la serratura della porta e con la cuccetta ribaltabile) sono da slapstick comedy, ma rallentate e rese astratte dalla dilatazione temporale.
Ben lontane dallo scatenare la risata, sottolineano lo smarrimento esistenziale del personaggio ed il suo eterno spaesamento. Asano si esprime in un inglese approssimativo e, come in “Last life in the universe”, sembra avere gravi problemi di comunicazione col prossimo. Se nel precedente film di Ratanaruang era un giapponese in Thailandia, qui è un giapponese che vive a Macao, lavora a Hong Kong e fugge a Phuket, destinato ad essere perennemente (e metaforicamente) “Lost in translation”. Paradossalmente, l’unica forma di comunicazione reale che riuscirà ad instaurare sarà quella con Lizard (un bravo Ken Mitsuishi), lo stralunato killer amante del karaoke incaricato di ucciderlo. Non mancano i delicati tocchi di humour così caratteristici di Ratanaruang (il personaggio di Lizard, la continua ricerca di Kyoji di un francobollo che non riuscirà mai a trovare), che danno al suo cinema una levità del tutto particolare senza compromettere il rigore della messa in scena.
Pur non essendo per tutti i palati, considerato che “Invisible Waves” è una nuova tappa nel percorso di un cineasta originale e che si avvale della meravigliosa fotografia di Christopher Doyle, che non ha certo bisogno di presentazioni, sarebbe davvero un peccato perderselo.
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