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Scritto da Nicola Picchi   
lunedì 07 giugno 2010

Bedevilled
Titolo originale: Kimboknam Salinsaeui Jeonmal
Corea: 2010  Regia di: Kim Hyeong-joon Genere: Drammatico Durata: 116'
Interpreti: Seo Young-hee, Ji Seong-weon, Chae Shi-hyeon, Min Ho-hwang, Min Je, Park Jeong-hak, Cheol-jong, Lee Ji-eun
Sito web:
Nelle sale dal: Inedito
Voto: 6,5
Trailer
Recensione di: Nicola Picchi
L'aggettivo ideale: Parossistico

BedevilledHae-won è una trentenne nubile che lavora in una banca di Seoul.
Una sera assiste a un’aggressione ai danni di una ragazza ma, convocata dalla polizia, rifiuta di testimoniare per non essere coinvolta. Costretta dal suo capo a prendersi una vacanza, Hae-won si imbarca per l’isola di Moodo, da cui proveniva la sua famiglia.
Qui incontra Bok-nam, sua amica d’infanzia, e si accorge che la ragazza viene usata come una schiava dagli abitanti dell’isola. Bok-nam la implora di portarla con sé a Seoul, ma si scontra con l’aridità e l’indifferenza di Hae-won.

“Bedevilled”, esordio alla regia di Jang Cheol-soo, già assistente alla regia di Kim Ki-duk per “Primavera, Estate, Autunno, Inverno…e ancora Primavera” e “La Samaritana”, ha tutti i pregi e i difetti delle opere prime, nelle quali si avverte l’esigenza di dire troppo e tutto assieme. L’urgenza espressiva abbatte gli steccati tra i generi; “Bedevilled” è un film drammatico, uno slasher, un revenge-movie? Jang pecca per eccesso, e il risultato è un’opera magmatica che è l’insieme di tutte queste cose, con risultati a volte stimolanti, altre meno.
Il film vive attraverso contrapposizioni violente. La prima, da cui discendono tutte le altre, è quella tra ambiente urbano e Corea rurale. Seoul rappresenta la modernità, un’ambiente in cui l’imperativo della produzione e le convenzioni sociali generano alienazione e solitudine, mentre l’isola è un luogo mitico ancor prima che geografico, uno spazio dove le pulsioni da soddisfare sono primordiali e i sentimenti animaleschi. L’archetipo dell’isola come spazio “altro” è ricorrente nella cinematografia coreana.

Se nel classico “I-Eoh Island” di Kim Ki-young, i cui echi si riverberano ne “L’Isola” di Kim Ki-duk, veniva descritta una società matriarcale di donne-streghe e sciamane, a Moodo regna il patriarcato, secondo rigidi dettami confuciani.
La brutalità, misura di tutti i rapporti, coinvolge in egual modo uomini e donne, ma è l’autorità maschile a dominare attraverso l’esercizio della violenza, una prerogativa che non viene messa in dubbio dalle altre donne.
Bok-nam è un rassegnato giocattolo sessuale, a disposizione di tutti gli uomini della piccola comunità, e le quattro donne anziane, le uniche abitanti assieme a Bok-nam e a sua figlia, si rendono complici delle sopraffazioni maschili, un po’ per paura, un po’ perché è così che devono andare le cose. Maliziose e avide, si accaniscono sulla ragazza con fervore da aguzzine, costituendo una sorta di coro in negativo. Bok-nam è costretta da loro a massacranti turni di lavoro per espiare il suo peccato originale, che è quello di aver messo al mondo una figlia dopo uno stupro collettivo.
La seconda forte contrapposizione è quella tra Hae-won e Bok-nam, e passa attraverso la fisicità delle due protagoniste, le quali sono il prodotto di due ambienti contrastanti. Hae-won è pallida e esangue, sofisticata ma anaffettiva, mentre Bok-nam, la pelle scurissima bruciata dal sole, è l’unica in contatto con le proprie emozioni, siano esse dolore, rabbia, voglia di rivalsa o amore per Hae-won. Un flashback illustrativo ne definisce i caratteri, diversi fin dall’infanzia, che danno la misura della distanza incolmabile che le separa. Le due donne non riusciranno infatti ad incontrarsi se non quando sarà troppo tardi, perché Hae-won è arroccata nella sua gelida intangibilità, che riuscirà a scalfire solo nelle inquadrature conclusive.

La prima parte di “Bedevilled” ha caratteri di crudo realismo, e Jang non lesina in sesso sbrigativo o violenza, sottintendendo abusi infantili e spiacevolezze assortite, le quali giustificano la repentina sterzata della seconda parte. Bok-nam, dopo un terribile episodio di cui viene incolpata ingiustamente, decide di averne abbastanza e da vittima si trasforma in carnefice.
La strage è ravvivata da tocchi di humour nero, ma, nel suo parossismo da grand-guignol, scavalla il neorealismo iniziale per approdare nei territori dello slasher. Dopotutto l’infischiarsene delle convenzioni è proprio quello che ci fa amare il cinema coreano, rendendolo più vitale di tanti altri, e la virata sarebbe anche giustificata se non fosse che Jang Cheol-soo non capisce quando è il caso di fermarsi.
Lo sbarco sulla terraferma di Bok-nam, con i vestiti di Hae-won e una borsa di Vuitton, sottolineano improvvidamente la necessaria acquisizione di un’identità diversa, quella di Hae-won, che è l’unica in cui Bok-nam può specchiarsi.
Una cosa che forse non era il caso di rimarcare in maniera così elementare e che, unita al delirante epilogo in prigione, imbastardisce la coerenza della prima parte.

Ottima prova di un’intensa Seo Young-hee (era la ragazza rapita in “The Chaser”) nel ruolo di Bok-nam, mentre la televisiva Ji Seong-weon è più anodina e meno convincente, soprattutto nelle fasi finali. La regia di Jang, lenta e contemplativa, unisce efficacemente lirismo e violenza, e il film è stato selezionato per la “Semaine de la Critique” al Festival di Cannes di quest’anno.

 
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