Titolo: Il passato
Titolo originale: Le passé
Francia, Italia: 2013. Regia di: Asghar Farhadi Genere: Drammatico Durata: 130'
Interpreti: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin, Sabrina Ouazani
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 21/11/2013
Voto: 8
Trailer
Recensione di: Domenico Astuti
L'aggettivo ideale: Perfetto
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Farhadi è uno dei migliori registi in circolazione, dopo film come “ About
Elly “ e l’Oscar “ Una separazione “ potremmo dire che è diventato la bandiera
del nuovo Iran, civile, democratico e privo di ideologie terzomondiste
banalizzanti; ha preso il posto come maestro iraniano del grande Kiarostami da
qualche film in declino, ed ha appena 40 anni.
Quello che domina nello stile di
Farhadi, in tutta la sua cinematografia ed anche in quest’ultimo spendido film,
sono i dialoghi serrati e mai inessenziali, uno sviluppo psicologico dei
personaggi profondo e chiaro, storie semplici eppure importanti e necessarie;
mai un’inquadratura eccessiva o autoreferenziale, mai un attore che abbia uno
sguardo o un gesto fuori luogo, dove il lavoro del Direttore della Fotografia .
è minuzioso e autorale.
A questo si aggiunga una sceneggiatura d’autore che
bisognerebbe far studiare agli studenti di Cinema, una regia essenziale al
servizio della storia, un cast perfetto e da premio; a questo dobbiamo
aggiungere che nei film di Farhadi ci sono solo storie vere, per persone vere,
con sentimenti veri, con inquietudini vere, dove nemmeno le bottiglie sono di
plastica.
Ahmad ( un ottimo Tahar Rahim ) è un quarantenne tranquillo ed equilibrato,
dopo quattro anni di vita in Iran torna a Parigi su richiesta della moglie
francese Marie ( Bérénice Bejo – Miglior attrice al Festival di Cannes, per
questo ruolo ) da cui è separato per firmare le carte del divorzio. All’
apparenza tutto è normale tra loro, tutto sembra riconciliato tra i due, tanto
che lei lo va a prendere all’aeroporto, sembra contenta di vederlo e lui è
dolce e saggio; lei in qualche maniera lo obbliga a dormire nella loro casa
assieme alle due figlie di lei avute da un francese che vive a Bruxelles - e
che Ahmad ha visto crescere e ha fatto da padre - e ad un ragazzino scorbutico
e sofferente figlio del nuovo fidanzato della donna. Ahmed è sempre calmo,
apparentemente molto sereno ma in realtà non ha ancora chiuso con il suo
passato, quello che lo rendeva infelice a Parigi al punto di cadere in
depressione e poi a fuggire dalla sua famiglia e tornare a casa sua a Teheran.
Ma anche lei è inquieta, di un’inquietudine che non può avere senso né ragione
ma che va oltre qualsiasi buon senso o logica.
E’ una storia semplice, da
casa della porta accanto, ma contiene una trappola e una verità che pur venendo
alla luce - come aprendo delle scatole cinesi - non può essere declinata e
riconosciuta veramente. Dapprima lui viene a sapere che lei vive con un altro,
Samir ( Tahar Rahim ), un magrebino con moglie in coma in ospedale da otto
mesi, che ha una lavanderia proprio di fronte alla farmacia in cui Marie
lavora.
Poi, Marie gli chiede di parlare con la figlia più grande, Lucie ( una
brava e convincente Pauline Burlet ) perché non riesce a capire cosa abbia e
perché si sia instaurato tra loro un rapporto conflittuale.
Nel breve
soggiorno di Ahmad le verità non sono solo una ma ci sono molte verità, tutte
credibili ma nessuna conclusiva; ognuno crede di sapere qualcosa benchè sappia
effettivamente anche altro senza dirselo.
Lucie odia il nuovo compagno di sua
madre perché è convinta di essere stata la colpevole del tentato suicidio della
moglie di Samir, Ahmad si sente in colpa per aver lasciato Marie quattro anni
prima, Marie ce l’ha ancora con Ahmad per essere stata abbandonata. Ma questo
è solo una parte della verità e del passato di tutti.
Un caos di sentimenti,
realtà e apparenza che assurge a un unico comun denominatore, la malinconia dei
sentimenti, la confusione del cuore, i tanti segreti rimossi o mai voluti
conoscere benchè proprio lì, in evidenza. Questi segreti vengono alla luce
con immediatezza e chiarezza proprio perché sono stati da tempo elaborati e
bisognava solo trovare un pretesto per dirselo.
Ad una lettura un po’ più
profonda, c’è da parte di Farhadi la voglia, attraverso una normalità, di
raccontare la fine dell’idea di famiglia, della sconfitta di una società che ha
paura di affrontare il dolore e la verità e per questo ci sono coppie
clandestine, mogli che soffrono senza parlare, donne che si suicidano, figlie
che crescono sbandate, uomini – che forse – vanno a convivere per la comodità
di lasciare un figlio da qualche parte, donne che con indifferenza portano un
figlio in grembo più per vendetta che per amore: tutti cercano di salvare se
stessi e tutti sono pronti a scaricare o approfittarsi degli altri.
Il tutto
annebbiato dall’ipocrisia dei sentimenti e da una patina di menzogna.
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