Lady in the Water
Interpreti: Paul Giamatti, Bryce Dallas Howard, Andrew Aninsman, Bob Balaban, J. Bloomrosen, John Boyd USA: 2006. Regia di: M. Night Shyamalan
Genere: Fantasy Durata: 110'
Recensione Cristian Barbolini
Probabilmente l’intento è genuino; questo voler raccontare una “fiaba”, una leggenda, da parte dell’acclamato Shyamalan, lascia trasparire i segni di un tentativo sincero nel volerlo fare, ma tirate le somme, “Lady In The Water” pecca molto dal lato emozionale ed offre una visione troppo fredda. La scelta è audace, ambientare una fiaba “fantasy” ai giorni nostri, in un condominio di cemento (pur con vegetazione attorno), presuppone un certo atto di fede, più che altro per apprezzare il film perché altrimenti rischia di apparire ridicolo. C’è chi è disposto a farlo e chi no. Badate bene che Shyamalan, fortunatamente, non ha l’ottusa pretesa di voler comunicare a tutti i costi che in realtà i mostri esistono, anche se invita a voler credere nel fantastico, della serie ogni leggenda ha un fondo di verità. Questo film è un “tramite”, un collegamento tra cinema e fiaba, tra reale e immaginifico, dove raccontare è lo scopo principale del regista. Gli stessi personaggi non sono neanche stupiti più di tanto quando prendono coscienza di d'essere fondamentali per la buona riuscita del ritorno della Narf, una creatura della quale è difficile credere della sua esistenza, sempre che non la si veda con i propri occhi. Shyamalan vira piuttosto su un altro concetto, e se dalla sua filmografia abbiamo imparato che per lui nulla è casuale, in “Lady In The Water” il regista invita, ognuno di noi, a ricercare uno scopo, un senso, quel senso che permette d’essere reali e quindi di vivere una propria vita, perché tutti abbiamo uno scopo, qualunque esso sia. A questo punto Shyamalan sfodera una bella idea nel suo film, lascia da parte, totalmente, l’effetto “ribaltamento”, la sorpresa finale, inaspettata in ogni suo lavoro. Fatto questo non si limita a narrare, ma prende i personaggi e ne propone allo spettatore la loro scomposizione, delineandoli secondo i crismi abituali di una fiaba come questa, ed ecco che vediamo i buoni, con le loro abilità magiche ancora da scoprire, i cattivi, lo scontro, eccetera. Quella di Shyamalan, e corre su binari paralleli alla narrazione della fiaba, è un’analisi, una descrizione di come si scrive una fiaba, di come si costruiscono i personaggi, quali sono i loro requisiti e come si fa a riconoscerli e, se vogliamo, è anche un chiaro riferimento alla sua attività di sceneggiatore. Con la figura del critico cinematografico, che dall’alto della sua esperienza si lamenta del fatto che oggigiorno i film mancano d’originalità, Shyamalan si diverte a giocare con questo personaggio, facendogli fare una fine che afferma l’esatto contrario di tutto quello che il critico saccente pensava ed innalza una barriera di difesa contro la critica contemporanea in modo ardito. Come per tutti gli altri film di Shyamalan, anche quest’ultima pellicola richiede un’impegno da parte dello spettatore che deve, per forza di cose, accettare dei dogmi senza appunto contestarli. Spesso il finale non è così importante come si possa pensare, e certo scrivere una cosa del genere parlando di Shyamalan è un azzardo vero e proprio che propongo come ultima ancora di salvezza per trovare qualcosa di buono in tutto il resto. Ma il film termina com’era lecito pensare, e ripercorrendo tutta la pellicola si scopre che mancano quelle emozioni che il regista voleva trasmettere allo spettatore. Questo “congiungere” il soprannaturale con la realtà (ed il contrario) non può dirsi riuscito e il film tende anche ad annoiare in qualche punto. Come detto prima Shyamalan vuole che lo spettatore apprezzi il suo abile gioco di scrittura ma tralascia uno degli aspetti più importanti, cioè che i personaggi e le vicende devono obbligatoriamente trasmettere emozioni. Come in un compito per casa, abbiamo un regista che ha capito tutto, ma che non sa far altro che ripetere la lezione per filo e per segno, con la pretesa che l’autocitarsi possa sopperire al vuoto emozionale del suo film, mettendo in luce una messinscena priva di una vera attrattiva.
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