Diary of the Dead
Titolo originale: Diary of the Dead
USA: 2007. Regia di: George A. Romero Genere: Horror Durata: 95'
Interpreti: Michelle Morgan, Joshua Close, Shawn Roberts, Amy Ciupak Lalonde, Joe Dinicol, Scott Wentworth, Philip Riccio, Chris Violette, odd Schroeder, Megan Park
Sito web: www.myspace.com/diaryofthedead
Nelle sale dal: 30/10/2009
Voto: 8
Trailer
Recensione di: Denis Zordan
L'aggettivo ideale: Ipnotico
Mentre stanno girando un film horror a basso costo, un giovane regista e la sua troupe scoprono che le notizie rilanciate dai media su un presunto risveglio dei morti si concretizzano in un autentico incubo: la decisione di documentare i fatti con un film intitolato The Death of Death si sovrappone alla loro lotta per la sopravvivenza nelle ore e nei giorni successivi.
Non se lo fila nessuno. Molti di quelli che l’hanno visto sorvolano imbarazzati.
Da noi, manco a dirlo, non s’è ancora potuto ammirare (forse in autunno, in mezzo al mare magnum delle proposte di tutti i tipi che quella stagione porterà con sé).
Eppure, diciamolo subito e niente giri di parole, Diary of the Dead è uno dei film più straordinari degli ultimi anni. Un capolavoro. Senza specificazioni e senza distinguo. A cui andrebbero dedicati fior di articoli e di studi, che invece fioccano per il mediocre ultimo lavoro di Brian De Palma.
Come sempre in Romero, l’Apocalisse è già avvenuta. È storia, anche se nessuno sembra accorgersene e tutti continuano a fare ciò che fanno e hanno sempre fatto. Ma a differenza che nelle precedenti puntate della saga (che qui, in un certo senso, sembra tornare al punto di partenza, avvicinandosi alla lugubre bellezza del capostipite), il tentativo di raccontare l’avvenuto disastro non trova più alibi o ideologie. Non lo scontro Nord-Sud del mondo che s’intuiva in Land of the Dead (a tutt’oggi il meno convincente della serie), nella rivolta contro i privilegiati capeggiata dallo zombi nero. Non lo sfacelo della società dei consumi di Dawn of the Dead; no, qui l’Apocalisse è, solo e semplicemente, l’Apocalisse, sotto forma di Caos assoluto, di assenza di spiegazioni non soltanto razionali, ma anche ideologiche o spirituali o di qualsivoglia altro genere.
Nato come punto di vista del regista sull’esplosione delle nuove forme di visione e d’informazione, Internet e YouTube in testa, Diary of the Dead toglie il respiro con la sua cadenza ipnotica, regredendo allo stato inerziale della macchina cinema. I personaggi del film cercano di catturare quello che vedono, riuscendoci solo in apparenza, in realtà non comprendendo (non potendo comprendere) quanto avviene sotto i loro occhi storditi. Al contrario di De Palma, che in Redacted continua a cadere nell’equivoco di chi gioca con il cinema come mezzo per la lettura della realtà in quanto ambiguità, Romero sa che l’ambiguità è doppia, sia nello sguardo che nella medesima realtà: la “lettura” dei fatti attraverso la videocamera è così nient’altro che un disperato – e molto cialtrone, come nei recenti e interessanti Cloverfield e REC – tentativo di concepirsi e orientarsi in mezzo al caos. Romero batte sempre nuove piste, nega udienza a tutte le attese, fa strame delle certezze ordinarie della gente e dei suoi personaggi (l’ospedale, luogo di salvezza, si rivela un covo di morti viventi, mentre l’episodio con il fattore amish lo pone lontano anni luce da certi spiritualismi di ritorno alla Shyamalan. Per non parlare delle forze armate, che in un breve e fulminante episodio, ci fanno una figura molto più che barbina, con un’ellissi secca che Redacted si sogna).
Quasi un film in decrescendo, Diary of the Dead ha il coraggio sardonico di farsi beffe di chi cerca la verità senza sapere che questa è influenzata dal suo stesso sguardo viziato, dai mezzi con cui la cerca: il protagonista, Jason Creed, è letteralmente abbagliato dalla necessità di raccontare il vero tramite le sue riprese, ma va incontro ad uno scacco totale, le riprese non danno modo di capire, né di mettere in ordine.
Per una volta, si può dire che Diary of the Dead è, paradossalmente, un grande film politico proprio perché programmatico, meditato, deciso a tavolino dalla spontanea furia anti-ideologica di cui Romero lo ammanta.
Il low budget del film ha permesso al regista di non dover scendere a compromessi con la produzione, e il risultato sta sotto gli occhi: un’opera che non cerca, di proposito, un ritmo narrativo, ma si lascia guidare dall’istinto del suo regista in una serie di episodi sfilacciati e disordinati, e per questo tanto più opachi e inquietanti.
È davvero una disdetta che l’Italia non possa (ancora) godersi un simile film, un UFO che rende obsoleta e stantia gran parte della cinematografia contemporanea: ma se c’è una regia in questa lacuna, è proprio ben studiata. Che tempi! e che paese!
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