The Bleeding House
Titolo originale: The Bleeding House
USA: 2011. Regia di: Philip Gelatt Genere: Horror Durata: 86'
Interpreti: Alexandra Chando, Patrick Breen, Nina Lisandrello, Charlie Hewson, Betsy Aidem, Richard Bekins, Court Young, Henderson Wade, Victoria Dalpe
Sito web ufficiale: www.thebleedinghouse.com
Sito web italiano:
Nelle sale dal: Inedito in dvd
Voto: 5
Trailer
Recensione di: Dario Carta
L'aggettivo ideale: Sprecato
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Delitto e castigo.
Se la colpa è alimentata da un segreto oppressivo,la pena si riveste di follia e la ragione si perde nei territori del delirio.
Nel cinema dove l'horror declina il thriller,i peccati sepolti in anime tormentate da debolezze non confortate dal perdono di sè vengono immersi in un lavacro di purificazione grondante il sangue di farneticanti argomentazioni metaetiche ("7ven").
Altrettanto spesso,nel cinema della violenza,l'abuso strappa il sipario su nuclei famigliari raccolti attorno all'innocenza domestica e ne dilania l'intimità,violandola nel calore e negli affetti per nessun altro motivo se non il lacerante senso dello spreco di una dignità umana profanata e dispersa in un nulla impazzito ("L'ultima casa a sinistra").
Il recente lavoro dell'esordiente Philip Gelatt scontorna allarmanti elementi di distinzione morale fra delitti perpetrati per un'ideologia malata e carneficine giustificate solo dal senso del piacere ("Funny Games").
Tematica desolante che, se bene analizzata,darebbe la forma all'inquietudine sottile e tagliente che il cinema della paura oggi emargina a beneficio di un senso più visivo della repulsione ("Saw").
Ma lo spunto di Gelatt,genuino e fecondo di potenzialità,va diradandosi con il procedere di un lavoro che scivola nella banalità e tanto più questo è peccato,quanto più fertile di spunti è il territorio che il regista si limita ad esplorare solo in parte,fermandosi alle soglie di un'analisi che non procede e disattende le premesse.
Matt (Richard Bekins) e Marilyn (Betsy Aidem) Smith vivono con i figli Gloria (Alexandra Chando) e Quentin (Charlie Hewson) in una casa in campagna,isolata da una società da cui fuggono e dalla quale sono rifiutati.
Sulla famiglia grava un oscuro segreto e ognuno dei componenti sembra portare il peso di un peccato nascosto o di una scelta sbagliata.
Alle difficoltà del rapporto fra i coniugi si aggiunge la complessità della figura della figlia Gloria,ragazza taciturna e introversa che risponde solo al nome di Blackbird e che colleziona insetti inchiodandoli alle pareti di camera sua.
Suo fratello Quentin non cerca altro che la fuga dall'oscurità che lo circonda,con la fidanzata Lynn (Nina Lisandrello).
Quando uno straniero di passaggio,Nick (Patrick Breen),vestito di bianco e di buone maniere bussa alla porta degli Smith,il messaggio cristiano dell'uomo volgerà per la famiglia in proclami di morte e inni alla follia.
Gelatt imbastisce un racconto fitto di contrasti,sui quali il regista imposta il senso della narrazione.
Nelle sequenze in apertura,le ombre dell'appartamento sono squarciate dal rosso acceso delle macchie di vernice versate da Marilyn,in modalità di aggressione visiva e anticipazione di una minaccia incombente (cfr. in analogia,il mantello di Valerie in "Cappuccetto rosso sangue") e il regista insiste sull'esasperazione di un cromatismo saturato che stride negli angoli di una casa immersa nel semibuio di un segreto non rivelato.
Tutto il racconto si dipana fra ombre e pareti chiuse - la luce del sole non compare che poche volte - ma l'ambiguità non se ne nutre e la tensione si disperde in un esercizio oppimente arenato in potenzialità sprecate.
Come uno spettro,il mistero avvolge la realtà di una famiglia che non si conosce mai,un nucleo unito ma divorato da dentro da un passato impietoso,un'ombra agitata che penetra in pensieri e anime graffiate da una colpa mai rimessa,di cui Gelatt non spiega subito la natura,limitandosi a scontornare figure compromesse e tormentate,fra cui spicca Gloria,il cui silenzio grida il disturbo che la ammorba.
La parlata di Nick,intenzionalmente scandita in un dialetto cantilenante del sud,è mezzo preciso che il regista impiega per tratteggiare i lineamenti dell'uomo e inserirlo nel palcoscenico della vicenda.
La cadenza della dialettica sudista qui legge con attenzione quello che nella realtà demografica americana incarna la galanteria del Sud,la finezza e il garbo di un'antico retaggio confederato,tutt'oggi vivo e reale,che si fa oggetto meritevole di fiducia e stima.
Tutta questa successione di contarsti si sublima in un viaggio nell'oscurità e nelle pieghe stravolte delle pulsioni umane che si fanno follia,delirio e perdizione.
Gelatt tesse la trama di un racconto che si dipana lento e sordo fra sentenze e monologhi scanditi da mantra e ossessioni ("...l'ordine porta ordine"),snaturando l'occasione per uno sviluppo più compiuto di un argomento intrigante ma lasciato in sospeso e rinunciando ad un'analisi più profonda di protagonisti che paiono ingaggiati per una partecipazione ad una sceneggiatura generica e priva di mordente e reale consistenza.
Le sonorità ossessive ricavate dalle corde basse di una sezione archi onnipresente avvolgono spazi angusti e dialoghi scarni,misurati dalle stanche dissertazioni di un uomo malato di sè,ennesimo angelo di punizione e riscatto,e quanto resta da vedere dopo i primi 30 minuti di pellicola volge a compito intellettuale e prevedibile di un cinema da occasioni perdute e dalla personalità ordinaria.
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