Intervista a Ilaria Mutti
Scritto da Elisabetta Ribacchi   
martedì 12 giugno 2007

Intervista a Ilaria Mutti realizzata da Elisabetta Ribacchi
Ilaria Mutti ha realizzato il corto cinematografico: "Mi piaci quando Taci "

ilaria.jpgQual è la tua formazione artistica e professionale?
La prima formazione artistica è arrivata alle scuole medie, quando iniziai per gioco a frequentare un laboratorio pomeridiano di poesie in dialetto romanesco, soprattutto Belli e Trilussa.
Poi finito il liceo classico, iniziai a seguire, la mattina, le lezioni di economia all’università e nel pomeriggio seguivo gli stage di direzione cinematografica tenuti da Maurizio Sciarra e Daniele Luchetti, entrambi mi insegnarono a scoprire come un immagine si può trasformare in un’emozione e capii subito che non ci si poteva improvvisare in questo lavoro, serviva sicuramente la creatività, ma senza una buona preparazione tecnica anche la migliore idea non avrebbe mai avuto la giusta “forma visiva”. Così mi appassionai alla fotografia e seguii il corso con Roberto Forza (direttore della fotografia per molti film importanti tra i quali: Non Prendere Impegni Stasera, La Meglio Gioventù, Liberate i Pesci, I Cento Passi). Nello stesso periodo ebbi la fortuna di ascoltare diverse conferenze con Valerio Jalongo sul linguaggio cinematografico. L’anno successivo mi iscrissi quindi alla Pietro Scharoff per seguire un corso di studi regolari e avvicinarmi anche alla recitazione per capire come gestire al meglio gli attori sia in teatro che sul set. Fu proprio allo Scharoff che conobbi il prof. Giuseppe Argirò il quale mi seppe guidare in un lungo percorso fra regia e recitazione Teatrale e cinetelevisiva (durato due anni) presso la C.R.E.S.C.O. scuola riconosciuta dalla Regione Lazio.
Nel frattempo iniziai a fare l’assistente volontario su diversi set sia televisivi ( tra questi anche “La omicidi” per la regia di Riccardo Milani) e su alcuni cortometraggi della Scuola Nazionale di Cinematografia. Lo stare sui set è sempre stata una palestra importante, Entrai, anche in contatto con diversi registi teatrali (come ad esempio Roberto De Robertis) per testi tratti da Cechov o classici greci (Orestea, Medea, etc..)

La possibilità di stare a contatto con il teatro e la tv credo che sia stata un’ottima scuola che mi ha permesso di capire i linguaggi e le modalità diverse da utilizzare.

Hai lavorato molto come regista teatrale, anche su testi scritti da te.
Com’è nato questo interesse? E come si concilia con la tua attività nel campo cinematografico?

Ho sempre scritto, fin da piccola, e l’interesse per quest’arte è nato dall’esigenza di riscrivere la realtà, una realtà come la vorresti… Con i colpi di scena e le giuste atmosfere… Insomma una realtà che “calzi a perfezione” addosso ai personaggi, che li caratterizzi e che aiuti lo spettatore a immedesimarsi nella storia. In questo mio percorso è stato fondamentale la lettura di libri come “Uomo, vieni fuori!” o “Diario Cinematografico” di Cesare Zavattini… Un grande!

Ho capito, grazie anche a diversi testi di scrittura creativa, come sia importante a teatro avere un copione che sostenga l’attore nei tempi e nell’interazione con il pubblico.

Personalmente mi diverto molto a scrivere testi comici, monologhi o dialoghi in cui poter inserire un disegno luci o delle musiche che integrino la storia e portino lo spettatore “a star al gioco” con l’attore. Purtroppo in Italia ci sono pochi fondi per fare del teatro con luci e musiche… A volte ci si riesce attraverso degli sponsor… Altre solo autoproducendosi gli spettacoli…

Ultimamente però, vedo che il teatro si sta muovendo anche verso il musical vero e proprio, magari un musical vicino al teatro comico che in Italia ha sempre avuto un largo consenso di pubblico e una grande storia, spero che si vada avanti su questa linea… Non ho mai creduto nel teatro fatto per pochi eletti, ma in quello capace di riunire e interessare varie fasce di pubblico come ogni forma di spettacolo dal vivo.

In campo cinematografico prediligo una scrittura basata sull’immagine. Mi piace creare delle scene in cui tutto torna, in cui ogni scena sia finalizzata al finale o che sia un chiarimento fondamentale per lo spettatore, insomma creare una sorta di struttura che faccia da supporto all’emozione dall’inizio alla fine…

A volte mi sono trovata a scrivere testi per altri registi… Magari stai diversi mesi a scrivere una sceneggiatura a emozionarti e immaginarti come sarà girata… E spesso lui, il regista, arriva sul set e ti stravolge tutto il tuo modo di pensare… ma fa parte del gioco!

Oltre al teatro hai avuto esperienze di assistente o aiuto alla regia per cinema, televisione e pubblicità. Quali differenze hai trovato nel modo di lavorare in questi diversi settori?

La tv, il cinema e la pubblicità sono tre universi diversi, può essere un luogo comune, ma è anche la realtà.

La tv entra nelle case, dove il pubblico magari è distratto o impegnato a fare altro… E’ come un sottofondo musicale per rompere il silenzio che a volte si crea… Quindi bisogna fare storie semplici, storie comuni che sia possibile seguire anche distrattamente, ciò non significa che i prodotti devono per forza essere scadenti, anzi dovrebbero essere ancor più interessanti proprio per cercare l’attenzione del pubblico, di appassionarlo e di facilitarne la visione.

Nella pubblicità, invece, c’è il cliente, cioè il committente, e questo è fondamentale. Bisogna prima di tutto capire e saper realizzare ciò che lui vuole. Bisogna mettersi al servizio del prodotto da commercializzare. A volte per alcuni registi questo è un limite creativo, secondo me è invece una grande sfida. La propria creatività deve essere finalizzata a qualcosa di concreto e non fine a se stessa. Inoltre credo che proprio grazie alla pubblicità si sono sviluppati molti effetti speciali e molte inquadrature “sperimentali” che oggi fanno parte del bagaglio culturale e tecnico di molti registi.

Infine il cinema… Il grande sogno! Il creare l’emozione sullo schermo… Il saper modellare l’aspetto tecnico per realizzare il proprio film… Molte volte si pensa al film come a una serie di belle immagine, ma l’immagine che non è supportata da una storia, dalle giuste atmosfere e soprattutto dagli attori, è sicuramente un’immagine fine a se stessa. Al limite può essere una bella inquadratura, ma non è cinema.

Io credo molto che la riuscita di un film sia affidata agli attori, al regista e al lavoro di team che si crea sul set. Se su un set ci si diverte e ci si emoziona sicuramente il prodotto finale sarà apprezzato dal pubblico, ma se non ci si crede in un progetto, lo spettatore sarà il primo ad accorgersene.

Dopo due cortometraggi co-diretti con Pierfrancesco Fraioli, Target! e Lady…China, hai realizzato una docufiction dal titolo Mi piaci quando taci. Com’è nata l’idea di questo lavoro?

La collaborazione con Pierfrancesco Fraioli è nata durante i corsi con Maurizio Sciarra e Daniele Luchetti, entrambi stavamo facendo un percorso di studi comune anche se con finalità e approcci diversi. Lui ama la fantascienza e i film spettacolari, io sono più portata per le commedie all’italiana con un sapore agro-dolce, quindi lavorare insieme è stato per entrambi un momento di crescita professionale molto importante dovendo coniugare idee e visioni diverse.

Dopo Lady… China, corto ambientato nel mondo dei fumetti in cui fantasia e realtà erano collegate dal tratto d’inchiostro, ho scritto di getto la storia di Mi piaci quando taci (il titolo è tratto da una delle più belle poesie di Neruda).

La storia nasce dall’esigenza di raccontare una storia semplice, una storia su ciò che mi circondava in quel momento, sul mondo giovanile che nell’era della comunicazione non riesce a “narrare” le proprie emozioni. In definitiva il corto non è altro che il ritratto di due persone che hanno paura: paura delle proprie paure e non hanno il coraggio neppure di confessarsele, paura di farsi delle domande che non hanno risposte, paura di sognare perché si ha paura che poi quei sogni non si realizzino… Insomma paura di provare emozioni!

Ho notato che soprattutto noi giovani parliamo molto, moltissimo, ma difficilmente affrontiamo discorsi sulle emozioni, sulle paure o sugli stati d’animo…

Ad esempio genericamente si dice “mi piace quello”, ma si ha sempre più paura a dirsi “ti amo”.

Oggi più di ieri si ha paura di essere feriti, di scoprirsi troppo nei confronti dell’altro, di essere vulnerabili.

Insomma il tabù di oggi non è il sesso, ma l’amore! E proprio da qui è nata l’idea del docu-fiction “Mi piaci quando taci”.

Nel corto non vediamo mai i volti dei due protagonisti, il giovane regista Luca e la sua amica Lisa. Vediamo alcuni particolari dei loro corpi e, soprattutto, ascoltiamo le loro voci. Cosa hai voluto comunicare attraverso questa scelta stilistica?

Sinceramente, all’inizio, pensavo di fare un cortometraggio con gli attori, m’immaginavo già alcune caratteristiche di Lisa e Luca. Volevo in qualche modo due persone antitetiche. Poi nello sviluppo del piano lavorazione, mentre sceglievo le location, ho capito che gli attori, in questo lavoro non ci dovevano essere.

E’ stato un processo lungo e una scelta sofferta, perché a me piace tantissimo lavorare con gli attori sui personaggi, curare anche le minime sfumature, quindi non è stato facile rinunciarvi.

Ho iniziato, però, a pensare a scene senza attori nel momento che ho capito che quei due giovani dovevano avere il volto di qualsiasi altro ragazzo o ragazza. Infatti, Lisa e Luca, stretti nel proprio disagio, all’inizio non riescono a comunicare perché entrambi utilizzano “schermi di protezione” per paura di ferirsi e di soffrire. Lisa ha la sua tecnica “d’attacco”, sempre pronta com’è a giudicare ed esprimere la propria opinione in modo assolutistico. Luca, invece, utilizza l’ironia per evitare, in una sorta slalom continuo, di rispondere sia alle domande di Lisa, sia forse alle proprie. Ed è stata questa riflessione a farmi capire che doveva essere il pubblico a metterci “la propria faccia” su quelle immagini, su quelle parole e su quella musica… senza più lo schermo di protezione del volto dell’attore o dell’attrice!

In che modo hai scelto le locations che nel racconto diventano di un’importanza fondamentale?

Le locations sono state frutto di lunghi sopralluoghi e di vari ripensamenti. Avevo tanti luoghi, immagini e fotografie su cui lavorare, quindi ho dovuto fare un lavoro di sottrazione, cioè iniziare a scartare alcuni luoghi in base a dei criteri che pian piano sono maturati dentro di me, durante l’ultima riscrittura della sceneggiatura (ho fatto 4 riscritture).

Pensavo a luoghi che non fossero subito riconoscibili, luoghi che avessero una storia propria e che facessero allo stesso tempo da sfondo alla mia storia, così da generare diversi piani di lettura all’interno della stessa immagine. Vedendo tanti luoghi e molto diversi fra loro, immediatamente capii che mi serviva anche un elemento che potesse fare da filo conduttore alle immagini in modo da non aver poi una serie di luoghi scollegati fra loro. Leggendo la sceneggiatura sotto quest’ottica mi venne in mente l’elemento dell’acqua: un elemento primordiale legato alla nostra esistenza sin dalla nascita e un elemento allo stesso tempo liquido che non è mai fermo, ma che scorre più o meno velocemente e che si trasforma facilmente. E fu proprio questo elemento che poi ha dato ancor più senso alla storia ed è stato fondamentale nella scelta delle location. Infatti, fatta questa scelta tutto divenne più facile: andai a visitare il Parco del Delta del Po’ e scelsi di girare il lungo monologo di Luca su quelle acque, poi ci fu la scelta di Capri, ma non della Capri turistica e più conosciuta ma dei punti più nascosti e quasi irriconoscibili e lo stesso criterio poi l’ho utilizzato per Ravenna e la sua zona industriale, per la banchina sul Lago di Sabaudia, Comacchio, Livorno, Anzio e il cimitero militare dei caduti del Commowealth della seconda guerra mondiale.

Un’altra scelta importante è stata l’ambientazione del dialogo dei due protagonisti quando riflettono se Dio è un eroe… Ho visto molte Chiese e molti luoghi sacri prima di decidere di ambientarla nella Chiesa del SS. Rosario di Marino… Ma solo in quella Chiesa fra le staute barocche, i bianchi stucchi della cupola e gli ovali traforati ho trovato la giusta atmosfera per ambientare il dialogo tra l’eroismo come aspirazione umana e il divino come esperienza da vivere, il regista come narratore di storie e Dio come Regista del mondo.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Ho presentato un progetto Al Ministero per i Beni e le Attività Culturali dal titolo “IL DESIDERIO NELLA PAURA - CONSTANTINOS KAVAFIS” che ha come tema principale il disagio giovanile in diverse forme e contesti: dalla diversità etnica alla riscoperta della nostra storia e in particolare del periodo della Resistenza, in cui eroi come Iris Versari e Silvio Corbari, diedero la loro vita in nome di un ideale. Speriamo di avere il finanziamento!