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C'era una volta … a Hollywood (Once upon a time in Hollywood) USA 2019 Regia di: Quentin Tarantino Genere: Drammatico Durata: 130' Cast: Leonardo Di Caprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret Qualley, Tim Olyphant, Julia Butters, Austin Butler, Al Pacino.
Nelle sale dal: 18/09/2019 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 5,5 L'aggettivo ideale:Spento...
Sul finire degli anni ‘50 Rick Dalton è il protagonista di Bounty Law, serie western che pare potergli garantire una carriera di sicuro successo. Dieci anni dopo Rick, e la sua controfigura Cliff, vivono a Hollywood nel tentativo di rilanciare una carriera che a causa del calo d’interesse per il western sta precipitando nel dimenticatoio. Proprio per questo Rick vorrebbe avvicinare il regista Roman Polanski, che da poco si è trasferito con la moglie Sharon al 10050 di Cielo Drive, esattamente vicino alla sua villa.
Un tributo alla Città degli Angeli e al mondo del cinema che stava muovendo i primi passi verso un nuovo tipo di eroe. Non più personaggi senza macchia né paura ma controversi e pieni di incertezza.
Fra i primi si poteva di certo annoverare Rick Dalton, un Leonardo Di Caprio che si agita nel sottobosco hollywoodiano a caccia di una fama che non è mai arrivata se non di striscio, e che nel breve volgere di due lustri è passato da essere una possibile promessa al simbolo del villain delle serie tv.
Con lui l’inseparabile amico e stuntman Rick Dalton, Brad Pitt, non una semplice controfigura ma anche un sostegno sul quale poggiare i propri dubbi, frutto di un mestiere pieno di incertezze.
Tarantino al solito confeziona ricostruzioni d’ambiente e personaggi che rasentano la maniacalità, unite a una colonna sonora selezionata con altrettanta certosina pazienza e una dose di ultraviolenza, come la definirebbe il protagonista di Arancia Meccanica, a condire il tutto.
Trascinandoci sul finire dei ’60 e giocando con citazioni cinematografiche e serie tv di secondo piano, in un’eterna dichiarazione d’amore per il cinema che ha saputo formarlo, prima da appassionato e poi da regista adulto e pieno di talento. Gli eroi Tarantiniani questa volta però mancano il bersaglio, e l’undicesima pellicola del regista originario del Tennessee non sarà quindi ricordata fra le sue migliori, nonostante Di Caprio e Pitt riescono a diventare un duo perfettamente in sintonia e degno erede di Vince Vega e Jules Winnfield.
Colpa di una sceneggiatura che purtroppo si spegne e trascina in due ore di party a bordo piscina ai quali partecipano star e starlette a caccia di scritture e gossip. Non bastano le ultime curve per rivalutare quindi una pellicola che nella vicenda finale riguardante la Manson Family vede solamente un appendice in cui narrare la definitiva perdita d’innocenza dei ‘60 e con loro la probabile fine della cultura hippy.
Jojo Rabbit (Jojo Rabbit) Nuova Zelanda, Stati Uniti, Francia 2019 Regia di: Taika Waititi Genere: Drammatico Durata: 108' Cast: Roman Griffin Davis, Taika Waititi, Sam Rockwell, Scarlett Joahansson, Alfie Allen, Stephen Merchant, Rebel Wilson, Thomasin McKenzie, Archie Yates.
Nelle sale dal: 16/01/2020 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 7 L'aggettivo ideale:Potente...
Johannes è un bambino viennese di dieci anni che vive con sua madre Rosie, abbandonata dal marito partito per il fronte italiano, e con un’altra figlia morta a causa di una malattia.
Nella vita di Johannes, da tutti chiamato Jojo, l’idea della supremazia nazista è talmente radicata al punto di avere come amico immaginario una versione fanciullesca di Adolf Hitler. Tutto però cambierà quando scoprirà che sua madre sta nascondendo in casa una ragazza ebrea.
L’infanzia di un giovanissimo membro della gioventù hitleriana marcia con il passo marziale di una versione infantile e amichevole del Führer, impersonato dallo stesso regista, che dal piccolo Jojo non pretende null’altro che fedeltà cieca e totale declinata attraverso perle di strategia bellica e di supremazia ariana narrate come se ci si trovasse all’interno di un grande gioco.
Taika Waititi che da tempo progettava di portare in scena il romanzo di Christine Leunens, riesce nell’intento di narrare la conclusione della seconda guerra mondiale come una sorta di rivisitazione de “La vita è bella”, ma questa volta il protagonista non è un adulto ebreo che deve fare digerire il campo di prigionia al figlio riuscendovi solamente grazie alla sua capacità di trasformarlo in un eterno gioco, ma bensì un bambino cresciuto nella Vienna degli anni ’40 che vede nel nazionalsocialismo la possibilità di farsi accettare dal mondo adulto e se poi quest’ultimo si copre di ridicolo con capitani da macchietta, ufficiali di esercito e Gestapo ai margini del surreale, poco importa, fino a quando nella sua vita non entrerà a sorpresa un’ospite indesiderata, la diciassettenne Elsa, ragazza ebrea amica della sorella morta, e che progressivamente gli farà cambiare idea.
Il dodicenne Roman Griffin Davis riesce alla sua prima prova a reggere il palco al fianco di attori consumati come lo splendido Sam Rockwell, nel ruolo del capitano alcolista Klenzendorf, e Scarlett Johansson in quello della madre protettiva ma ottimista, Rose.
Il messaggio finale è potente e commovente e il film è un inno sorridente all’uguaglianza e ai desideri di pace e ottimismo.
Il risultato finale, al di là del botteghino, potrebbe inoltre riservare al piccolo Jojo, e al suo amico Adolf, il privilegio di afferrare quella statuetta che oltre due decadi or sono sfuggì al film diretto da Roberto Benigni ovvero quell’Oscar, come migliore film, che in tal caso non ci sembrerebbe assolutamente immeritato.
Tolo Tolo (Tolo Tolo) Italia 2019 Regia di: Luca Medici Genere: Commedia Durata: 90' Cast: Checco Zalone, Souleymane Sylla, Manda Tourè, Antonella Attili, Nicola Nocella, Barbara Bouchet, Nicola Di Bari, Gianni D’Addario, Diletta Acquaviva.
Nelle sale dal: 02/01/2020 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 6 L'aggettivo ideale:Leggero...
Pierfrancesco detto Checco, evasore fiscale braccato da numerosi debitori, decide di abbandonare l’Italia e ricominciare una nuova vita facendo il cameriere in un villaggio vacanze in Kenya.
Durante il proprio soggiorno il villaggio viene attaccato da un commando di terroristi e per questo Checco decide di fare rientro in Italia non con il proprio passaporto ma seguendo lo stesso percorso di tutti i migranti e con il solo scopo di far perdere le proprie tracce.
Zalone torna al cinema senza l’aiuto del suo fido collaboratore Gennaro Nunziante che per una volta gli cede il posto facendolo cimentare con la sua prima regia e consentendogli al tempo stesso di trattare un argomento fin troppo attuale e declinato con il solito fare finto becero che ne contraddistingue la maschera, creata su atteggiamenti finto scorretti e principalmente razzisti.
La pellicola, introdotta con largo anticipo da un video che ha fatto storcere più bocche, diventa un modo originale per parlare di migrazione e molto altro, fra cui il dramma di chi è tartassato da tasse ingiuste pur di poter lavorare.
Con il protagonista nel ruolo di un truffatore degno erede, per atteggiamenti e modus operandi, del “peggior” Alberto Sordi di sempre, citato, nemmeno troppo velatamente, con un passo saltellante e un abbigliamento finale che rappresentano la perfetta sintesi sia del Professor Dottor Gudio Tersilli ma anche dell’armaiolo e guerrafondaio Pietro Chiocca, che proprio nei paesi dell’Africa centrale aveva trovato il proprio filone aurifero.
Zalone di Sordi però non ha certo la statura attoriale, ma sa dirigere e riesce a confezionare un’opera che è ben più di un semplice endorsement nei confronti del rispetto delle genti che approdano sulle nostre coste, alternando le proprie canzoni a una trama che scorre veloce verso una conclusione che lascia a suo modo interdetti forse perché dopo l’eccellente “Quo Vado?”, in cui l’autore di Capurso aveva preso di mira il malcostume di rimanere aggrappati a ogni costo al posto fisso e statale, noi per primi ci aspettavamo molto di più, al netto di incassi che stanno trasformando questa sua quinta pellicola in uno sbanca botteghino maggiormente ancorato però al personaggio più che ai contenuti offerti.
Sorry we missed you (Sorry we missed you) UK, Belgio, Francia 2019 Regia di: Ken Loach Genere: Drammatico Durata: 100' Cast: Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Linda E Greenwood, Harriet Ghost .
Nelle sale dal: 02/01/2020 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 6 L'aggettivo ideale:Già visto...
Ricky Turner, un ex operaio disoccupato, decide di cominciare l’attività di corriere in franchising presso la filiale della PDF, multinazionale esperta nella consegna pacchi nel più breve tempo possibile.
Ancora una volta, dopo “Io, Daniel Blake”, l’occupazione nella città di Newcastle s’imbatte in un giustiziere ottantatreenne armato di quello che sa meglio fare ovvero dirigere pellicole di denuncia confezionate in favore delle classi meno abbienti, il tutto per denunciare la deriva verso cui sta virando la società dei consumi.
Ken Loach, regista laburista, ma sarebbe più preciso affermare il contrario, e il suo fido collaboratore Paul Laverty, al solito autore della sceneggiatura, fa acquistare un furgone di seconda mano al Rick Turner portato in scena da Kris Hitchen e gli fa consegnare freneticamente pacchi acquistati da clienti compulsivi ma con vite altrettanto problematiche esattamente come la sua, immergendo sin dalle prime battute lo spettatore nella realtà di un uomo alla caccia disperata di una nuova occasione, intravista fra le pieghe di un colloquio nel corso del quale parole come ‘affiliazione’ e ‘collaborazione’ sanno fare facile presa sul desiderio di lavorare in proprio senza piegarsi ai voleri di chi ti stipendia.
Da lì in poi quello che accadrà a Rick, a sua moglie Abbie, e al rapporto con i due figli adolescenti, la piccola Liza Jane e il sedicenne appassionato di graffiti, Seb, sarà una rapida discesa verso gli inferi declinata come una continua ingerenza di un lavoro – gabbia visto come una nuova soglia di povertà sociale, prima ancora che economica.
Purtroppo però il film, costruito con il solito realismo struggente che contraddistingue Loach e Leverty, fallisce proprio nella completa assenza di possibili vie d’uscita e dal quale pare non esserci scampo, se non una famiglia unita che fra varie vicissitudini riesce sempre a ritrovarsi. Una tipologia di trama che seppure in altre vesti Loach ci aveva già somministrato e che per quanto apprezzabile non aggiunge nulla alla vasta filmografia del piccolo – grande uomo di Nuneaton. .
Un giorno di pioggia a New York (A Rainy Day in New York) USA 2019 Regia di: Woody Allen Genere: Commedia Durata: 92' Cast: Timothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Rebecca Hall, Kelly Rohrbach, Suki Waterhouse, Diego Luna, Liev Schreiber, Annaleigh Ashford, Cherry Jones.
Nelle sale dal: 28/11/2019 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 5 L'aggettivo ideale:Avvitato...
Una coppia di studenti universitari decide di trascorrere un fine settimana a New York per consentire a Ashleigh d’intervistare il famoso regista Roland Pollard. I due partono in pullman alla volta della grande mela, ma una serie d’inaspettati eventi, fra cui la famiglia di Gatsby del tutto ignara del suo passaggio in città, creeranno nella coppia un temporaneo allontanamento.
Ennesima perla, non certo indimenticabile, della sconfinata filmografia di Woody Allen che in passato ci ha portato sul lettino dello psicoanalista e nel centro della sua mente labirintica, tormentandoci con ragionamenti a un passo dalla follia per poi finirci con battute in puro stile yiddish.
Date queste premesse l’ultima pellicola tanto ostracizzata oltre oceano, causa le accuse di molestia piovute sul regista e che hanno portato il suo ultimo lavoro a essere diffuso solamente a due anni dalla conclusione delle riprese, non aggiunge nulla a quello che già il primo Allen aveva saputo offrirci.
Storaro, maestro della fotografia e immancabile collaboratore di Allen, incornicia una splendida New York uggiosa e che cambia aspetto a seconda dei fenomeni atmosferici che la percuotono, anche se è all’interno degli attici e dei grandi appartamenti di Manatthan che si consuma la vera narrazione di un week end da commedia degli equivoci.
Allen frattanto ci trascina ancora una volta lungo quello stesso Hudson che tante volte ha fatto da sfondo alle sue pellicole più celebrate, in una metropoli ove piaghe sociali e mendicanti non hanno trovato casa, come se fossimo avvolti in una bolla spazio temporale che proietta i due protagonisti, facoltosi rampolli di famiglie agiate, tra bar fumosi e le strade in pietra vista del Greenwich Village. Impiegando Timothée Chalamet, ventiquatrenne attore dal nome francese ma dai solidi natali newyorkesi, come suo giovane alter ego e dal quale verremo lentamente, ma altrettanto metodicamente, catechizzati su amore, jazz, letteratura e l’ipercriticismo nei confronti di una famiglia che non apprezza.
Dall’altro lato Ellen Fenning, ne impersona invece l’antitesi al femminile desiderosa di avvicinarsi alla grande metropoli perchè attratta dalle mille luci che da questa s’irradiano e che il regista impiega per denigrare la vacuità del lavoro di regista e del cinema Hollywoodiano in genere. Nel mezzo un lento peregrinare da un’abitazione all’altra, da una sigaretta alla seguente, sempre incastonati all’interno di una città splendidamente autunnale, fino a un finale prevedibile e che ci fa augurare che alla prossima fatica il regista di Match Point possa tornare in sella stupendoci.
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