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The vast of night (The vast of night) USA 2019 Regia di: Andrew Patterson Genere: Fantascienza Durata: 90' Cast: Sierra McCormick, Jake Horowitz, Gail Cronauer, Cheyenne Barton, Gregory Peyton, Mallorie Rodak, Mollie Milligan, Ingrid Fease, Brandon Stewart.
Nelle sale dal: Esclusiva Amazon Prime Video Recensione di: Chicco D'Aquino Voto: 7 L'aggettivo ideale:Classico...
Cayuga, New Mexico, anni ‘50, una serata speciale. Alla palestra comunale si gioca il derby cestistico della valle, grande attesa sugli spalti. Il clima è surriscaldato, famiglie, ragazzi, anziani si affollano sulle gradinate. Mancano pochi minuti all’inizio del match. Il conduttore radio dell’emittente locale, Everett è in fibrillazione e balzella da un lato all’altro del campo da gioco alla ricerca di Fay, centralinista sedicenne che dovrà occuparsi di interviste prepartita con un registratore a nastro.
Finito le registrazioni, Fay raggiunge la sua postazione di lavoro e tra chiamate di varia natura capta strani messaggi in codice. Inizia così il film vero e proprio, con un omaggio costante alla serie “Ai confini della realtà” e alle atmosfere dense di suspance che ne hanno da sempre caratterizzato il format.
Attraverso alcune testimonianze, telefoniche e de visu Everett e Fay si ritrovano in una dimensione inaspettata, con i sospetti che si fan sempre più certezze e con una vita che vorrebbero cambiasse. Non lontanissimo, a circa 800 chilometri Roswell continua a conservare i suoi segreti nella misteriosissima Area 51. Ancora un decennio e il mondo avrebbe assistito all’assassinio di Stato di JFK, all’invasione del Vietnam, con i suoi morti e la sua disfatta e, dopo Presidenti più o meno democratici, l’America avrebbe offerto il meglio di sé alla mercè di un paranoico e pericoloso miliardario.
Girato prevalentemente in Texas a Whitney (in poco più di 17 giorni e 6 mesi di meticolosa pre-produzione) il film si inserisce perfettamente nella mitologia della sf americana degli anni ‘50, tra guerra fredda, anticomunismo diffuso e acritico e un primo, timido consumismo post bellico. Azzeccatissimi e calati perfettamente nei rispettivi ruoli, Jake Horowitz, l’esuberante ed efficiente speaker radiofonico Everett Sloan e Sierra Mc Cormick, l’arguta e generosa Fay Crocker.
Come riconosce Andrew Patterson, film-maker trentottenne (ho avuto molte influenze da radio e letteratura) con alle spalle una solida formazione in regia a Dallas, i riferimenti sono diversi.
Si va da X-files a “Incontri ravvicinati del terzo tipo” senza tralasciare la serie sf piu’ popolare degli anni ‘50 già ricordata sopra: “Ai confini della realtà”.
A impreziosire la riuscita della pellicola, un asso nella manica come Steven Soderbergh, produttore esecutivo che ha coniugato efficacemente disponibilità del budget agli aspetti più strettamente artistici e tecnici. E anche grazie probabilmente a quest’apporto i riconoscimenti non hanno tardato ad arrivare.
Tra i molti il primo premio come miglior film narrativo allo Slamdance Film Festival di Park City, Utah e all’Edinburgh International Film Festival come il più meritevole lungometraggio internazionale.
Dark Places. Nei luoghi oscuri (Dark Places) USA, Francia 2015 Regia di: Gilles Paquet - Brenner Genere: Drammatico Durata: 113' Cast: Charlize Theron, Nicholas Hoult, Sterling Jerins, Christina Hendricks, Corey Stoll, Tye Sheridan, Andrea Roth, Chloë Grace Moretz, Sean Bridgers, J. LaRose, Shannon Kook.
Nelle sale dal: 22/10/2015 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 6,5 L'aggettivo ideale:Classico...
Libby Day, sfuggita per miracolo al massacro della sua famiglia per mano di suo fratello Ben, ha avuto da sempre una vita travagliata con una breve stagione di successi grazie a un libro biografico che narrava la vicenda.
A distanza di molti anni, ormai senza un lavoro e senza denaro, decide di farsi assumere da Lyle e dal suo club di appassionati di cronaca nera, tutti certi dell’innocenza di Ben e per questo desiderosi di riaprire il caso.
Nuovo thriller firmato da Gillian Flynn, autrice del pluripremiato romanzo L’amore bugiardo, poi divenuto un successo fra le sapienti mani di David Fincher, e che questa volta cela un processo di catarsi indispensabile alla protagonista, una al solito eccellente Charlize Theron, per riuscire a voltare finalmente pagina e ricostruirsi una vita, cimentandosi con una serie di certezze che si tramuteranno in altrettanti dubbi riguardo un fratello scomparso nei meandri di una prigione molti anni prima e forse accusato d’omicidio in maniera troppo frettolosa.
La donna, aiutata da Nicholas Hoult, ormai ultratrentenne e ben lontano dal suo esordio in About a Boy – un ragazzo, qui nel ruolo di un appassionato di fatti di cronaca nera e casi irrisolti, dovrà fare i conti con i suoi ultimi trent’anni di vita e con una serie d’incongruenze famigliari e investigative che spianeranno la strada a tutta una serie di ulteriori dubbi e incertezze anche personali.
Il regista francese Gilles Paquet – Brenner dirige affidandosi a un cast che riesce a funzionare come un orologio, aiutato da una sceneggiatura altrettanto solida che smembra la trama in due filoni narrativi. Il primo contemporaneo e il secondo legato agli eventi che portarono alla condanna di Ben.
Il cerchio si chiuderà solamente sulle ultime curve della pellicola mentre il tutto è impreziosito da una fotografia lugubre capace di esaltare il pathos palpabile lungo le quasi due ore di film.
Film che piacerà molto agli appassionati di thriller vecchia maniera ma con evidenti risvolti psicologici.
Honey boy (Honey boy) USA, 2019 Regia di: Ladj Ly Genere: Drammatico Durata: 93' Cast:Shia LeBeouf, Lucas Hedges, Noah Jupe, Clifton Collins, FKA Twigs, Laura San Giacomo, Maika Monroe, Natasha Lyonne, Martin Starr.
Nelle sale dal: 20/10/2019 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 7,5 L'aggettivo ideale:Catartico...
Otis Lort, stella dodicenne di una sitcom per ragazzi, vive assieme a suo padre James in un motel alla periferia di Los Angeles.
James è un ex veterano del Vietnam, disintossicatosi da poco e che impartisce al figlio lezioni di vita basate sul sopruso. Una volta cresciuto Otis diventa una persona problematica al centro di numerose risse e vittima di un incidente stradale causato dall’alcool, per questo verrà mandato in terapia dove per motivi medici gli viene ordinato di scrivere e descrivere il legame che lo univa al padre.
Shia LeBeouf, promessa ormai ultra trentenne del cinema d’oltreoceano, adatta i propri ricordi d’infanzia da bambino prodigio del canale Disney Chanel, cercando di spiegarci le ragioni delle sue ripetute ricadute adulte nel mondo della violenza e nell’abuso di sostanze alcooliche, donando un soggetto intimo e frutto di mesi di terapia riabilitativa alla regista Israelo-americana Alma Har'el alla quale pone come unica condizione, per poter narrare la storia di Otis e James, che fosse lui a impersonare il ruolo di James, alter ego di suo padre, clown da rodeo, veterano del Vietnam, dedito a stupefacenti e a suo modo innamorato del figlio Otis, stella dodicenne per la tv dei ragazzi e ormai in rampa di lancio per una fulgida carriera.
Nel viso di James, un LeBoeuf alla sua miglior prova intimista, c’è sempre un misto di falsità mista a odio e amore, nei confronti di un figlio che ha avuto più successo di lui e che per questo si può permettere di pagarlo per accompagnarlo sul set.
Un figlio al quale, con freddo cinismo, sottopone schiaffi, offese e intimidazioni psicologiche come senso di rivalsa. Dall’altro lato Noah Jupe riesce a non farsi schiacciare da una prestazione tanto efficace riuscendo a cancellare quasi del tutto la pur ottima prova di Lucas Hedges (altra ottima prova per il protagonista di Manchester By The Sea) nel ruolo di Otis ma cresciuto e ormai ventenne.
Jupe sfruttando i dialoghi fra padre e figlio dona altrettanto pathos a un adolescente cresciuto troppo in fretta. Stella in ascesa pronta a esplodere precocemente, per colpa di un’infanzia trascorsa con un cattivo modello genitoriale, una madre assente e una scuola frequentata quando capita.
Un viaggio quindi nei ricordi catartici di uno dei migliori attori della propria generazione, una pellicola ai margini della città degli angeli, perfetta anche per capire come, e per quale motivo, spesso le giovani promesse siano incapaci di rialzarsi in età adulta.
I miserabili (Les Misérables) Francia, 2019 Regia di: Ladj Ly Genere: Drammatico Durata: 119' Cast: Damien Bonnard, Alexis Manenti, Djibril Zonga, Issa Perica, Al-Hassan Ly, Steve Teintcheu, Almamy Kanouté, Jeanne Balibar, Jaihson Lopez, Luciano Lopez, Raymond Lopez, Nizar Ben Fatma.
Nelle sale dal: 19/05/2019 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 7 L'aggettivo ideale:Intenso...
L’agente Stéphane Ruiz, appena arrivato nella Brigata anti-criminalità di Montfermeil, viene affiancato a Chris e Gwada, agenti esperti che pattugliano da molti anni le strade del quartiere. Da subito Ruiz s’accorge che le tensioni fra le varie minoranze e la polizia potrebbero facilmente sfociare in violenza.
A oltre vent’anni da L’odio il cinema d’oltralpe fornisce una nuova perla che attraversa le banlieue della metropoli fermandosi per in un piccolo sobborgo di una capitale in festa per i mondiali appena vinti, unica fonte d’unione per una nazione divisa in quartieri borghesi e dormitorio, e luogo letterario narrato da Victor Hugo nel suo romanzo più celebre.
Lo sceneggiatore Ladj Ly, nato e cresciuto da genitori originari del Mali, proprio a Montfermeil e che quindi ben conosce le tensioni presenti nel territorio, trae spunto da un suo cortometraggio del 2017 per narrare eventi normali per chi vive la periferia di Parigi, ma riuscendo comunque a mantenere sempre molto alte la tensione e l’attenzione di chi osserva pur stereotipando personaggi che vanno dal poliziotto sbruffone a quello di colore in cerca del dialogo con le bande del luogo, dall’ultimo arrivato, inevitabilmente vittima dei colleghi più esperti, fino agli abitanti del quartiere che cercano di accettare la coesistenza con altre minoranze e con una polizia sgradita e sempre troppo dedita a soprusi necessari per il mantenimento dell’ordine.
Rispetto all’opera di Kassovitz il primo lungometraggio di Ly si differenzia sia per presentare tutti i punti di vista presenti e perché risulta una via di mezzo fra un mockumentary e il cinema noerealista in cui non si riesce a trovare un protagonista univoco, anche se l’ottimo Damien Bonnard si staglia fra colleghi avvezzi alla violenza e autoctoni poco disponibili, in cui gli eventi degenerano in scontri di piazza causati da una normale routine e dove, a visione ultimata, si fanno sempre più vere le parole tratte dal romanzo di Hugo: “non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi.
Ci sono solo cattivi coltivatori”.
Quadrophenia (Quadrophenia: A Way of life) Gran Bretagna, 1979 Regia di: Franc Roddam Genere: Drammatico Durata: 112' Cast: Phil Daniels, Leslie Ash, Philip Davis, Mark Wingett, Sting, Ray Winstone, Garry Cooper, Gary Shall, Toyah Wilcox.
Nelle sale dal: 14/09/1979 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 7 L'aggettivo ideale:Pedagogico...
Londra anni ’60. Jimmy Cooper vive con i genitori e la sorella in una casa alla periferia della città e lavora come fattorino di un’agenzia pubblicitaria.
I suoi soli interessi sono stordirsi con le anfetamine, bere, curare la sua lambretta e il suo guardaroba e trascorrere tempo assieme ai suoi amici Mods. Il ritrovo annuale per la festività per il Bank Holiday offrirà ai Mods di regolare finalmente i conti con i rivali Rockers, un altro gruppo di ragazzi dediti al mito delle motociclette e affascinati da una vita al limite.
Inno generazionale scritto da Pete Townshend nei primi anni ’70 e opera rock che inizialmente riguardava le quattro personalità che componevano il gruppo degli Who, oltre che un inno della subcultura Mod che da quasi due decadi, e partendo dalla Terra d’Albione, aveva invaso prima gli Stati Uniti e di lì a breve, in una seconda ondata favorita proprio dalla storia di un giovane fattorino Londinese, avrebbe trovato nuova linfa vitale anche nel nostro paese.
Il merito difatti della pellicola di Franc Roddam, futuro ideatore del format MasterChef, è stata quella non di rappresentare il canto del cigno di uno stile di vita, ma bensì il perpetuarsi di questi nel corso del tempo. Quadrophenia seppur datato e figlio di un’epoca nel corso della quale abbigliamenti e gusti musicali potevano facilmente identificare i giovani, già afflitti da divergenze di opinioni e ideali con i loro genitori, ancora oggi viene rivisto in continuazione da orde di appassionati di sub culture, da amanti del cinema, della musica, e ovviamente dai Mods più incalliti, divenendo quello che Easy Rider è per la cultura hippy.
Una sceneggiatura lineare modificata rispetto all’opera rock per risultare meno onirica e più ancorata a vicende comuni, vede nel protagonista, impersonato da Phil Daniels il deus ex machina della narrazione.
Scelto per il ruolo grazie a una carriera teatrale di tutto rispetto, nonostante gli appena venti anni, e che invece lo ha visto in seguito sempre ricordato per il ruolo di Jimmy Cooper subendo la medesima sorte toccata anche a Mark Hamill con Star Wars. Differente invece la sorte toccata al giovane Sting, protagonista di una breve apparizione nel ruolo di Ace, il più carismatico dei Mods, e che di lì a breve avrebbe iniziato una radiosa carriera non cinematografica ma musicale come frontman dei Police.
A fine pellicola, o alla fine della sua ennesima visione, Quadrophenia è certamente inquadrabile come ben più di un apprezzabile film ma bensì come la perfetta commistione di musica e tendenze culturali, spaccato della condizione giovanile dei ’60 e di riflesso dei ’70 e osservatorio privilegiato su un mondo che ha saputo rigenerarsi dalle proprie ceneri.
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