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All eyez on me (All eyez on me) USA 2017 Regia di: Benny Boom Genere: Drammatico Durata: 137' Cast: Demetrius Shipp Jr., Danai Gurira, Kat Graham, Hill Harper, Annie Ilonzeh, Lauren Cohan, Keith Robinson, Jamal Woolard, Dominic L. Santana.
Nelle sale dal: 07/09/2017 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 6 L'aggettivo ideale:Superficiale...
Agiografia con qualche licenza narrativa necessaria per raccontare la breve e intensa carriera di Tupac Shakur, icona hip hop con una vita bruciata rapidamente come una candela dotata di un duplice stoppino. Nato in una delle numerose periferie - ghetto della grande mela, trasferitosi ancora adolescente a Baltimora ed esploso definitivamente sulla West Coast, fra incomprensioni con la madre e la sorella, le risse di strada, l’odio di media e colleghi, una carriera cinematografica nella quale interpretava sempre personaggi a lui affini e una morte piena di contraddizioni e per la quale non si sono mai trovati colpevoli e mandanti.
Demetrius Shipp Jr. grazie a una somiglianza incredibile porta in scena la fisicità e il talento musicale di un’artista cresciuto con il desiderio di diventare prima di tutto guida ed esempio per i membri della comunità afroamericana, capace di unire alle proprie abilità musicali, raffinate da ore di sfide sui palchi della scena rap, a strofe piene di concetti marxisti impartitigli da un genitore attivista delle black panther e aneddoti del ghetto; in un eterno scioglilingua con il quale schiaffeggiare avversari e istituzioni come in un incontro di boxe dal quale non amava sottrarsi.
La pellicola di Benny Boome, autore di video musicali per star hip-hop del calibro di 50cent e quindi profondo conoscitore dell’ambiente, cerca di sondare anche la vita privata del giovane uomo, dividendo le amicizie fra coloro che desideravano approfittarsene e chi gli seppe dare una mano o al quale 2pac non negò mai un aiuto disinteressato, il tutto sempre senza cercarne una riabilitazione postuma o giustificazioni.
Quello che balza all’occhio è il desiderio di onestà intellettuale per un film che fallisce proprio perché declinato come una narrazione nota ai più e che, come spesso accade nei biopic, non riesce ad andare oltre la semplice superficie di una serie di eventi narrati semplicemente come un susseguirsi di date e null’alltro.
Era già accaduto dieci anni or sono per la vita del mastodontico Notorious B.I.G. nemmeno in questo caso si è purtroppo riuscito a fare di meglio.
Gli anni più belli (Gli anni più belli) Italia 2020 Regia di: Gabriele Muccino Genere: Commedia Durata: 129' Cast: Claudio Santamaria, Kim Rossi Stuart, Piefrancesco Favino, Nicoletta Romanoff, Micaela Ramazzotti, Francesco Acquaroli, Emma Marrone.
Nelle sale dal: 13/02/2020 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 5 L'aggettivo ideale:Semplice...
Paolo, Riccardo, Giulio e Gemma sono quattro ragazzi cresciuti nella Roma dei primi anni ’80. La loro amicizia, dopo periodi d’incomprensione e di allontanamento, proseguirà inalterata fino ai giorni nostri.
Gabriele Muccino scrive e dirige una nuova “Meglio gioventù” con un manipolo di attori che fanno parte della ex meglio gioventù del cinema di casa nostra, per un paio di loro ci si affaccia già sulla soglia dei cinquanta, usando nuovamente parte del cast dei suoi film storici, da “l’ultimo bacio” a “Ricordati di me” passando per “Baciami ancora”, e cercando di raccontare come gli anni più belli siano quelli delle frequentazioni nate sui banchi di scuola o fra semplici vicini di casa, non necessariamente appartenenti al medesimo ceto sociale.
Amicizie che si accompagneranno per sempre, fra infortuni personali, famiglie che si sfaldano, dove gli aerei collidono con le Torri Gemelle, il Muro di Berlino crolla, i litigi sembrano irreparabili e gli ideali giovanili sono accantonati per fare posto al pragmatismo dell’età adulta.
Nonostante tutto questo i quattro protagonisti, ai quali aggiungere Francesco Acquaroli nel ruolo di un politico vittima di Mani Pulite e la figlia Margherita, stereotipo di donna arricchita e con tempo libero da dedicare alla beneficenza, non si perderanno mai veramente di vista.
Il dodicesimo lungometraggio di Muccino fallisce proprio negli eccessivi stereotipi che definiscono i protagonisti. Dall’avvocato carico d’ideali di gioventù, impersonato da Favino, ma che decide di passare al ‘lato oscuro’ per riscattare una vita fatta di stenti, a Kim rossi Stuart, professore di lettere e greco ed eterno precario, oltre che altrettanto idealista e da sempre perso nei propri pensieri, all’appassionato di giornalismo e critica cinematografica, portato in scena da Santamaria, che vive con l’aiuto della moglie, per finire con Micaela Ramazzotti, che grazie ad un’eccellente prova ha per l’ennesima volta dimostrato di non essere solamente la compagna di Paolo Virzì.
Centoventinove minuti al termine dei quali si giunge ad un epilogo carico di buoni sentimenti.
Da un cast così ben assortito, e da un regista che in passato aveva saputo esplorare con profondità rapporti di famiglia e interpersonali, ci aspettavamo però decisamente di più.
Lontano lontano (Cittadini del mondo) Italia, Francia 2019 Regia di: Gianni Di Gregorio Genere: Drammatico Durata: 107' Cast: Ennio Fantastichini, Enrico Colangeli, Gianni Di Gregorio, Daphne Scoccia, Salih Saadin Khalid, Francesca Ventura, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Iris Peynado.
Nelle sale dal: 20/02/2020 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 6 L'aggettivo ideale:Minimalista...
Gianni, Giorgietto e Attilio sbarcano il lunario fra una pensione esigua, le giornate trascorse al bar e la ristrutturazione di mobili antichi. I tre decidono di abbandonare l’Italia per trovare nuovi stimoli e vivere una vita più agiata. La prima decisione che dovranno prendere sarà capire in quale nazione recarsi.
Grazie all’aiuto dello sceneggiatore Marco Pettenello, Di Gregorio aggiunge un’altra pellicola alla sua esplorazione della mezza età, interpretando questa volta il ruolo di un ex docente di Greco e Latino al quale il ricordo di quello che insegnava brucia maggiormente proprio per la caducità delle materie insegnate, figlie di un sistema scolastico, e quindi di una nazione, che non ha saputo minimamente valorizzare né la sua professione, ma neppure la parte finale della sua esistenza, trascorsa fra una sigaretta e un bicchiere di vino consumato al bar vicino Porta Settimiana.
Gianni, Giorgietto, anch’egli pensionato ma con problemi economici evidenti e Attilio, ex fricchettone che vive alla periferia dell’impero, per la precisione a Tor Tre Teste, dove i due sodali non si sono mai spinti, decidono quindi di cambiare vita e per questo iniziano a progettare la loro fuga da una nazione che non li vuole perché parte improduttiva, o marginalmente produttiva, di una filiera che non si sa bene da che parte voglia parare.
La prima decisione che I tre dovranno prendere sarà capire in quale nazione recarsi e per questo l’aiuto di un prezioso cliente di Attilio sarà determinante, da lì in poi l’escalation di dubbi colpirà ogni aspetto della loro vita, dall’incertezza per il futuro vissuto lontano dall’Italia, fino ai dubbi di salute e natura economica.
Di Gregorio rimaneggiando un suo vecchio racconto riesce a creare una pellicola minimalista e lenta, esattamente come i suoi tre protagonisti, presi fra la voglia di rimanere e quella di ricostruirsi una vita in ben altri lidi, ma anche fin troppo prevedibile fino a un epilogo nel quale spicca ancora di più la figura di Attilio, interpretato dal canto del cigno di Ennio Fantastichini, capace di ergersi sui due eccellenti coprotagonisti, lo stesso Di Gregorio ed Enrico Colangeli. Da vedere per completare la cinematografia di Di Gregorio e ammirare le ultime curve della vita di tre pensionati dei giorni d’oggi e per ammirare un’ultima volta un mostro sacro del cinema e teatro di casa nostra.
L'uomo dei sogni (Fields of dreams) USA 1989 Regia di: Phil Alden Robinson Genere: Drammatico Durata: 107' Cast: Kevin Costner, Amy Madigan, Gaby Hoffmann, Ray Liotta, Tim Busfield, James E.Jones, Burt Lancaster, Frank Whaley, Dwier Brown, Kelly Coffield, James Andelin.
Nelle sale dal: 21/04/1989 Recensione di: Ciro Andreotti Voto: 6,5 L'aggettivo ideale:Sentimentale...
Ray Kinsella, agricoltore dell’Iowa, appassionato di baseball, sposato e padre di una bambina, durante una passeggiata di fronte alla sua fattoria sente una voce che lo esorta a “costruirlo così lui tornerà”. Dopo un iniziale tentennamento Ray decide di costruire un campo di baseball regolamentare di fronte casa, sacrificando parte del suo raccolto e mettendo a serio repentaglio la vita economica della sua famiglia, ma con il privilegio di poter assistere a partite fra quei campioni del passato apprezzati sia da lui sia da suo padre.
Inno poliedrico in bilico fra il fantasy, i rapporti che devono cercare di essere recuperati e il ‘passatempo a stelle e strisce’ per eccellenza, tanto apprezzato da Charles Schulz e dai suoi Peanuts, quanto snobbato da questo lato dell’oceano.
Costner interpreta in maniera sentita e totalizzante il ruolo di un padre e marito modello ma dalla giovinezza travagliata e macchiata da un rapporto burrascoso e prematuramente interrotto con il padre, appassionato dei White Sox di Chicago ed ex promessa del diamante.
Quel campo dei sogni che nel titolo originale del romanzo dell’omonimo autore letterario W.P. Kinsella, rappresenta l’architrave sulla quale poggia pretenziosamente tutta o quasi la società americana contemporanea.
Phil Alden Robinson aggiunse una regia forse altrettanto pretenziosa dotata di una lentezza però necessaria a enfatizzare ogni momento di pensiero o di discussione dei protagonisti, da Costner a James Earl Jones, nel ruolo dell’alter ego del Kinsella autore, fino a Burt Reynolds qua alle prese con la sua ultima apparizione. Un montaggio differente, disinteressandosi da spettatori di una trama che non vuole necessariamente essere credibile ma aderente al testo, avrebbero forse potuto fare apprezzare maggiormente anche all’estero una pellicola che negli Stati Uniti è diventata di culto esattamente come lo sport della quale tratta.
Una pellicola carica di validi sentimenti e di quei sogni tanto cercati e anelati dal romanziere canadese.
Rocketman (Rocketman) USA 2019 Regia di: Dexter Fletcher Genere: Drammatico Durata: 121' Cast: Taron Egerton, Jamie Bell, Richard Madden, Bryce Dallas Howard, Gemma Jones.
Nelle sale dal: 29/05/2019 Recensione di: Cristiano Salmaso Voto: 5 L'aggettivo ideale:Debole...
E' nel centro di riabilitazione, nel quale si è rifugiato per ripulirsi dalle dipendenze, la prima immagine di Elton John nel biopic musicale Rocket man; indossa una dei suoi sgargianti costumi che avranno, insieme agli innumerevoli cambi di occhiali, un ruolo importante nel tono - più kitsch che glam - della pellicola.
Vittima di una infanzia povera di affetti (solo la nonna incoraggia il suo talento), il timido Reggie Dwight comincia a muovere i primi passi in cerca della propria identità, non solo musicale: ruba il nome al sassofonista Elton Dean (l'altro a John Lennon), si apparta con un talent scout, segue il consiglio di un cantante: “uccidi la persona che volevano fossi per diventare chi vuoi essere”; ci riuscirà, ma dovrà pagare un prezzo molto alto.
Cavalcando l'onda del successo ottenuto con Bohemian Rhapsody, Dexter Fletcher inscena uno spettacolo senza capo né coda tra American Graffiti e Velvet Goldmine, con un Elton John trasformato nella parodia di se stesso, un personaggio inconsistente al netto di canzoni, eccessi e lustrini.
Lecito aspettarsi la spettacolarizzazione della vita della rockstar ma questo Rocket man proprio non funziona: un po' biografia romanzata, un po' dramma blockbuster, un po' musical d'antan, il film risolve la vita dell'artista in maniera banale, con il facile espediente del flashback: l'infanzia difficile nel rapporto con un padre anaffettivo (che tornerà nel tormentone “quand'è che mi abbracci?”), la parabola ascendente nel dividersi tra il buon socio/amico Bernie e il crudele amante/produttore John e l'inevitabile crisi nelle confessioni durante la terapia di gruppo.
Si salvano qualche scena sulla title track (il tuffo in piscina che è l'ingresso al Viale del tramonto e il finale immaginifico) e naturalmente le canzoni, seppure depotenziate perchè le smorfie di Taron Egerton non bastano a colmare il vuoto. Alla fine quel che rimane è soltanto la voglia di riascoltarne la musica, rivedere pellicole del genere su altri artisti (Jerry Lee Lewis, Bob Dylan, Johnny Cash, Ray Charles) e immaginare questo film nelle mani di qualcun altro. Cameron Crowe?
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