Anamorph
Titolo originale: Anamorph
USA: 2007 Regia di: Henry Miller Genere: Thriller Durata: 107'
Interpreti: Willem Dafoe, Scott Speedman, Peter Stormare, Clea DuVall,
James Rebhorn, Amy Carlson, Yul Vazquez, Don Harvey, Paul Lazar,
EdwardHibbert, Amir Arison, Michael Buscemi, Desire Casado, Robert C.
Kirk, MarciaHaufrecht, Monique Curnen
Sito web:
Nelle sale dal: 26/06/2009
Voto: 5
Trailer
Recensione di: Dario Carta
L'aggettivo ideale: Pedante
Stan Aubrey (Willem Dafoe) è un investigatore della omicidi che anni prima aveva contribuito all’arresto di uno psicopatico omicida chiamato zio Eddie,che componeva le sue scene del crimine disponendo i corpi delle sue vittime come macabre sculture,per comporre imitazioni di quadri o opere d’arte.
Ai tempi della storia,zio Eddie è morto,ma Aubrey si ritrova a dover far fronte ad un caso del tutto simile a quello di zio Eddie,dove un omicida seriale emula le gesta del suo predecessore,facendo trovare alla polizia le sue vittime disposte in posizioni che,viste da una prospettiva differente da quella frontale,riproducono inquietanti opere pittoriche o di scultura.
Due anni prima del pericoloso e controverso “Antichrist”,nel 2007 Willem Dafoe lavorò a questo “Anamorph”,clamoroso flop planetario che ha soltanto lambito la tela del grande schermo,per poi sparire e riciclarsi come homevideo. Pellicola con poco equilibrio e semindipendente,”Anamorph” delude anche lo spettatore domestico,che non resta soddisfatto dell’intrigante invito offerto dalla caccia all’omicida seriale e si interroga sulle sedute psicoanalitiche inserite nelle pellicole noir.
Il film si dipana in modalità contorta tessendo una trama attorno ad un concetto di astrattismo artistico,un ricorso ad un artifizio grafico che compendia deformazioni visive sublimate su tela con quelle di scene del crimine alterate e disposte a foggia di grottesche sculture umane la cui rappresentazione cambia secondo il punto di osservazione.
L’anamorfismo spiega come un soggetto che si intende realmente rappresentare,possa essere identificato modificando la posizione prospettica in un preciso punto,al di fuori del quale la riproduzione risulta totalmente differente dall’originale.
Il senso della vista insiste per tutta la durata del film come elemento catalizzatore e l’intera narrazione procede battendo il passo sull’atto visivo e sul concetto di alterazione percettiva che fa da fil rouge all’intera trama, ma che si rivela anche esserne il capestro.
Ombre,colori notturni e desaturati,tenebre lacerate da lame di luce o scorci urbani di strade o vicoli bui intervallati da scene di interni stantii,indizi,rivelazioni e commenti musicali,riportano sfacciatamente al “Se7en” di Fincher e ai tratti del “Silenzio degli innocenti” di Demme.
Ai bei titoli di testa,anch’essi evocatori di una visione immaginifica deformata,segue la presentazione del detective Aubrey,della sua ossessione e dei suoi fantasmi che inseguono una vita inquieta e segnata dalla costante compagnia della morte.
Spettri dai quali il poliziotto rifugge con reazioni quali la pulsione di riporre gli oggetti con un ossessivo ordine solo estetico o piegare il cappotto con ansiosa cura sulla sedia dei bar.
Aubrey è scosso da un passato che lo divora senza tregua e lo affligge nel continuo ricordo della vittima perduta anni prima nel caso di zio Eddie,un assassino seriale le cui gesta sembrano rievocate da un emulatore, un caso di un copycat ove un omicida mette in atto i suoi riti grotteschi disponendo le vittime secondo composizioni scultoree nelle quali gli indizi sono celati e riconoscibili solo attraverso un preciso punto di osservazione.
Purtroppo il film a lungo andare tende ad implodere,insistendo oltremodo sulle indagini introspettive del detective, a scapito dell’apertura della storia e del suo sviluppo,con gli avvenimenti che non si dilatano e rimangono sacrificati ed avvizziti.
Ne deriva un decorso statico della narrazione e una mancanza di respiro emotivo,costretto a cedere la scena ad un’indagine intimistica alla fine noiosa ed irritante.
La fluidità narrativa è afflitta dai reiterati flashback e dalle fermate psicologiche a scapito del racconto,che si strama in brandelli di episodi scuciti fra loro in un tessuto espositivo pieno di buchi,con la storia che fluttua inespressa e privata di ogni senso del mistero.
Il film vede intrecciarsi l’investigazione sull’assassino e l’analisi intima di Aubrey,con quest’ultima che grava sulla prima,con il risultato di appesantire il racconto e svuotarlo del fascino della componente noir.
Così,come il titolo richiama la tecnica usata per sovvertire il piano visivo cancellando l’idea originale della prospettiva fissa,allo stesso modo il film presenta sì una dimensione inquietante, ma sostanzialmente modificata e posta in un’ottica virtuale che sposta il centro di attenzione della storia verso la psiche del suo protagonista ed al suo excursus interiore,fino all’epilogo,esso pure soggettivo e snaturato del valore di film thriller con un tema intrigante ma persosi in noiosi mentalismi.
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