M
Titolo originale: M
Corea: 2007. Regia di: Lee Myung-se Genere: Thriller Durata: 110'
Interpreti: Gang Dong-weon, Lee Yeon-hee, Gong Hyo-jin
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Inedito in Italia
Voto: 6
Recensione di: Nicola Picchi
Min-woo Han, uno scrittore di best-seller, attraversa un periodo di crisi: soffre d’ansia, non riesce a dormire ed ha ricorrenti episodi di deja-vu. Inoltre non riesce a concludere il suo ultimo libro, per cui ha già ricevuto un sostanzioso anticipo. In perenne stato confusionale, intreccia una relazione con una misteriosa ragazza che lo segue insistentemente, suscitando le gelosie della sua fidanzata Eun-hye. Ben presto non riuscirà più a distinguere tra realtà e sogno, e lentamente inizieranno ad emergere ricordi del suo primo amore, Mimi, che Min-woo aveva completamente dimenticato.
Lee Myung-se ha dichiarato che Hitchcock gli è apparso in sogno mostrandogli un libro che si intitolava “M”, ma ci auguriamo che si tratti di una “boutade”. In realtà l’enigmatica M del titolo nasconde una pluralità di significati: M sta per Min-woo, il nome di Han, ma anche per Mimi, per “Mist”, una canzone molto popolare in Corea alla fine degli anni ’60, che Mimi canterà ad Han ad un certo punto innescando il flusso dei ricordi, e, naturalmente, per “memories”. Min-woo si renderà conto infatti che la ragazza non è altri che il fantasma di Mimi, morta anni addietro, e si riapproprierà del suo passato in un luogo dove i tempi coesistono, ovvero al Club “Lupin”, smaccata ma divertita citazione del bar dell’Overlook Hotel, barista compreso. Né questa è l’unica citazione dal capolavoro kubrickiano, dato che Min-woo, afflitto dal blocco dello scrittore proprio come Jack Torrance, riempie le schermate del suo computer di parole ossessivamente ripetute. “M” è interamente giocato su tre ambienti totalizzanti e giustapposti: il Club “Lupin”, che è il luogo della memoria, l’incredibile casa hi-tech di Min-woo e Eun-ye, luogo dell’impasse creativa e dello stallo emozionale, ed il ristorante, luogo dell’alienazione, delegato ad una gestione dei rapporti sociali alquanto surreale.
E’ inoltre strutturato su tre diversi piani di realtà, quello onirico, quello della memoria e quello della quotidianità.
Il regista li rimescola tutti con grande libertà espressiva ed altrettanto sprezzo del pericolo, in un incastro escheriano di geometrica perfezione che rasenta alle volte la stucchevolezza.
Lee Myung-se è un formalista, come ha ampiamente dimostrato nei precedenti “Nowhere to hide” e “The Duelist”, o lo si ama o lo si detesta profondamente, e non sono possibili vie di mezzo.
Tecnicamente dotatissimo, infila talmente tante inquadrature, tutte indovinate ed originali, e tagli di montaggio in cinque minuti che ad un altro regista (soprattutto italiano) basterebbero per dieci film interi. Con una sensibilità fortemente grafica, satura i colori, sovraespone l’immagine, stupisce con freeze, dissolvenze, ralenti ed accelerazioni repentine, ma tutto questo tour de force stilistico è a forte rischio di inconsistenza, sempre sull’orlo dell’esibizionismo e della vacuità espressiva. A tanta abilità registica non corrisponde purtroppo la capacità di infondere un barlume di vita nei personaggi.
Se nel caso dei coreografici spadaccini di “The Duelist” si poteva soprassedere, non si può fare altrettanto con “M”, che vorrebbe essere una sorta di thriller psicologico.
Dato che Min-woo e Mimi non acquistano mai abbastanza forza da essere di carne e sangue, né tantomeno appaiono forniti di una psicologia di qualche tipo, la scommessa appare persa in partenza.
La tensione drammatica è completamente assente, ed anche il melanconico finale che suggella questa romantica storia d’amore soprannaturale lascia del tutto indifferenti.
Non che questo sia brutto cinema, intendiamoci, è solo cinema onanistico, autoreferenziale ed anche un po’ irritante, considerata la dose di talento inutilmente sprecato.
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