Titolo: Solo Dio Perdona
Titolo originale: Only God Forgives
Francia, Danimarca: 2013. Regia di: Nicolas Winding Refn Genere: Thriller Durata: 95'
Interpreti: Ryan Gosling, Kristin Scott Thomas, Tom Burke, Vithaya Pansringarm, Yaya Ying, Byron Gibson, Gordon Brown, Sahajak Boonthanakit, Charlie Ruedpokanon, Oak Keerati
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Nelle sale dal: 30/05/2013
Voto: 6
Trailer
Recensione di: David Di Benedetti
L'aggettivo ideale: Spietato
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Julian (Ryan Gosling) e suo fratello maggiore Billy (Tom Burke) gestiscono un club di pugilato in Thailandia come copertura per il loro traffico di droga. Quando Billy, sotto effetto di stupefacenti, uccide brutalmente una prostituta, le autorità si rivolgono a un poliziotto in pensione, Chang (Vithaya Pansringarm), che opera basandosi su un’idea di giustizia molto personale: mutilare o uccidere brutalmente i criminali colpendoli con la sua affilata katana. Per vendicare la morte di Billy, giunge a Bangkok la madre Crystal (Kristin Scott Thomas), capo di una potente organizzazione criminale in America.
La donna, sconvolta per la morte dell’adorato figlio primogenito, ha un unico obiettivo: progettare e consumare una spietata vendetta contro coloro che si sono macchiati del suo sangue. Sarà l’inizio di uno spietato crescendo di violenza.
Scritto, diretto e prodotto dal regista danese Nicolas Winding Refn, “Solo Dio Perdona” è il suo decimo lungometraggio, per il quale è previsto un seguito già in fase di sceneggiatura (firmata sempre da Refn), dal titolo “I Walk With The Dead”.
Come molti già sapranno, il regista danese si è imposto agli occhi della critica internazionale con “Drive”, vincitore del premio alla miglior regia e candidato alla Palma d’Oro del Festival di Cannes del 2011, e ha consacrato Ryan Gosling come uno dei più talentuosi attori nel mondo del cinema indipendente e non solo (lo ricordiamo, bravissimo, nei film di Derek Cianfrance “Blue Valentine” e “The Place Beyond the Pines” e ne “Le Idi di Marzo” di George Clooney).
“Solo Dio Perdona” non è, purtroppo, al livello del precedente lungometraggio per quanto riguarda la sceneggiatura, piuttosto debole, ma conferma la bravura di Refn nelle scelte luministiche, nella direzione degli attori e nella composizione delle inquadrature. Questi elementi, ancora una volta in perfetta simbiosi, fanno parte di uno stile inconfondibile, in grado di raccontare storie e pensieri dalla grande intensità lasciando totalmente in secondo piano i dialoghi, optando per un linguaggio non verbale, puramente iconico, un vero e proprio “linguaggio del silenzio”.
Belle sono le scelte fotografiche, con contrasti marcati che formano ombre inquietanti, le quali, mescolate a inquadrature oniriche e allucinatorie, evocano terribili presagi di morte (un’influenza, questa, proveniente dal cinema orientale e che ben si sposa con la scelta della location, per il suo alto tono evocativo e spirituale).
Affascinanti, poi, quei colori primari (il rosso e il blu) tanto amati dal regista, che riempiono molte delle inquadrature, così come i movimenti di macchina, lenti, studiati, armoniosi, che ricordano un po’ Stanley Kubric.
Perfetto come sempre è Ryan Gosling con i suoi sguardi intensi, la sua fisicità possente ma non prorompente, capace di assumere su di sé il ruolo di protagonista e di condurlo impeccabilmente per tutta la narrazione (un ruolo, però, più riuscito in “Drive”, perché qui, rispetto al precedente film, il suo personaggio deve combattere con un antagonista, il poliziotto Chang, che s’impone con forza sulla narrazione). Perfetta è anche Kristin Scott Thomas (“Quattro matrimoni e un funerale”, “Nowhere Boy”) nell’inquietante ruolo della madre criminale e autoritaria, una figura piuttosto insolita ma carica di significati, una sorta di personaggio mitologico ma al contempo moderno, che ricorda gli incesti di una Giocasta e l’amore folle di un’Olimpiade per suo figlio Alessandro (Magno, ndr).
Immancabile, infine, la violenza, alla quale Refn ci ha ormai abituati. Ma mentre in “Drive” essa era, per così dire, funzionale alla narrazione e appariva come unico elemento in grado di concedere al protagonista una via d’uscita, qui il regista calca volutamente la mano e sbaglia nella costruzione del climax narrativo, che è preceduto da un momento, quello della tortura dello scagnozzo di Crystal, eccessivamente alto, esasperato, crudo, e che lascia, dopo il suo passaggio, un vuoto praticamente incolmabile. L’intensità del film, infatti, una volta arrivato al massimo della fisicità e della violenza, si perde e si esaurisce con essa, lasciando spazio a una seconda parte, con una scena di lotta fisica, dall’indubbio fascino visivo ma incapace di coinvolgere appieno lo spettatore ormai estenuato.
“Solo Dio Perdona” è un film che lascia l’amaro in bocca, non perché con spietata violenza afferma che il perdono può concederlo solo Dio e l’unica risposta possibile al perché dell’esistenza sia il Male, ma perché incanta e sconvolge il suo spettatore attraverso le sue sembianze accattivanti senza però coinvolgerlo appieno, reiterando la violenza in un circuito che, a poco a poco, si esaurisce.
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